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L’incultura dell’ospitalità
Pubblicato il 09/11/2012
Fotografia

L’EUR, in origine acronimo di Esposizione Universale di Roma, oggi abbreviazione di “Quartiere Europa”, è una delle zone più famose della Capitale. Progettato negli anni Trenta del secolo scorso per un’esposizione universale che non ebbe mai luogo a causa della guerra, è oggi un fastoso collage di edifici monumentali e palazzi più o meno gradevoli sorti negli anni successivi e via via ristrutturati con gusto non sempre raffinato. Di fatto, è un’area che brulica di studenti e lavoratori nelle ore diurne, un lussuoso dormitorio che si spopola subito dopo il tramonto.

L’arteria più mondana dell’EUR è viale Europa, ravvivata dallo “struscio” di desperate housewives, impiegati e professionisti in pausa caffè o pranzo, studenti che marinano la scuola o ne escono al termine delle lezioni. Qui, in posizione strategica, sorge quello che è ritenuto il più celebre bar del quartiere, che non desideriamo nominare non tanto per decenza, ma perché siamo convinti che non meriti nemmeno una citazione. Il posto è dotato di un certo appeal, non v’è dubbio, magari incrementato dalla frequente presenza di calciatori (soprattutto giallorossi: “er pupone” qui è di casa) e svariati “Vip” o presunti tali. Un pretenzioso gazebo arredato di comode (neanche troppo) sedute, ringalluzzite dai cuscini sponsorizzati da una celebre etichetta di acqua minerale, invita ad accomodarsi per una rapida riunione di lavoro o per scambiare quattro chiacchiere tra amici, quando non addirittura per un incauto pranzo. Oppure per godersi uno spettacolo del genere che di seguito proviamo a raccontarvi.

Il servizio (ma è già ardito definirlo tale) è a dir poco sciatto, l’attesa semplicemente snervante: il personale vi osserva di sbieco, quasi seccato dalla vostra presenza, ragion per cui non sarà infrequente assistere alla pseudo-pulizia dei tavoli vicini (vuoti!) mentre voi agognate da 15-20 minuti che qualcuno vi degni della sua attenzione. In compenso, avrete tutto il tempo di studiare la carta. In un profluvio di imprecisioni e/o omissioni di vario genere, spicca sublime una bottiglia di “Prosecco” (quale? Forse è meglio non sapere…) offerta (si fa per dire) alla clamorosa cifra di 80 EURO, con il ridicolo ricarico del 2000%, assurdo anche se lo servissero al tavolo con un seau à glace d’oro massiccio appeso alle orecchie dei camerieri. Rinunciando al presunto nettare, per un caffè bisogna investire € 4,30, per un aperitivo (con pizzettine riscaldate e stralci stantii di tramezzini) circa 15. A testa, s’intende. Per non parlare del servizio al banco: l’attesa si dimezza e si risparmia qualcosa, ma tazzine e bicchieri vengono poggiati su una guazza indistinta che ricopre l’intero bancone. E non azzardatevi a sedervi se avete preso solo un gelato volante! Rischiate di essere presi a male parole da un energumeno che sembra uscito da un cartone dei Flintstones

Lasciamo (per sempre) il posto, senza effettuare nessuna ordinazione, s’intende, ma indignati al pensiero del livello medio dell’ospitalità romana. È chiaro che nessuno ci obbliga a frequentare certi locali, ma è altrettanto evidente che i bar e i ristoranti “storici” sono un biglietto da visita della nostra città, come per qualsiasi altro luogo d’Italia. Proporre una tale immagine di quella che dovrebbe essere la patria dell’accoglienza e la culla dell’enogastronomia di qualità è ignobile e mortificante. E ci offende profondamente: come romani, come italiani e come consumatori consapevoli.

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