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C come carciofo
Pubblicato il 22/11/2013
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Dall’arabo al-harsuf, letteralmente “spina della terra”. Mantengono l’articolo“al”sia l’inglese artichoke che il lombardo articiocco. Il carciofo, per i botanici Cynara scolymus, occupa nel mondo una superficie coltivata di 130.000 ettari, dalla quale si ricava una produzione di 1.400.000 tonnellate. In Italia le carciofaie, localizzate principalmente in Liguria, Toscana, Lazio, Puglia, Sardegna e Sicilia, si estendono per oltre 50.000 ettari, generando una produzione media di 500.000 t, oltre un terzo del totale mondiale. Piuttosto distanziati, troviamo tra gli altri produttori la Spagna, e poi l’Egitto. Il nostro paese è inoltre leader dei consumi, con 7-8 kg. annuali pro capite. Benché ufficialmente classificato tra le piante perenni, il carciofo segue in realtà un ciclo triennale, con produzione media di 50-60 quintali per ettaro. La coltivazione richiede una accurata preparazione del terreno con aratura profonda, interramento dei concimi di fondo, una o due erpicature e livellamento finale della superficie prima del trapianto, da effettuare nel periodo da metà luglio a fine agosto, utilizzando piantine con pane di terra allevate in vivai propri o esterni specializzati; in alternativa, fino alla fine di settembre è possibile utilizzare i carducci, ovvero i germogli prelevati direttamente dalle piante madri. La propagazione da achenio o seme è comunque da ritenere preferibile in quanto assicura maggiore omogeneità delle produzioni e minor incidenza di fitopatie. 

La pianta in pieno sviluppo presenta steli robusti, ramificati, alti fino a un metro e mezzo, i cui capolini immaturi, noti appunto come carciofi, ne rappresentano la parte edibile. I fiori o flosculi si trovano nel fondo, circondati da un “fieno” setoloso e ispido e protetti da brattee impropriamente dette “foglie”, dure e fibrose all’esterno, via via più tenere e carnose all’interno. Il suddetto capolino viene raccolto insieme a buona parte del gambo, anch’esso in parte commestibile, previa eliminazione della parte esterna dai filamenti coriacei. Il periodo di raccolta (numerose specie rifioriscono più volte) va dall’inizio di febbraio a fine maggio. Gli esemplari più pregiati sono i grossi e saporiti “cimaroli”, che spuntano per primi al centro di ogni pianta, mentre sono detti braccioli o nipoti i carciofi di dimensioni minori che crescono ai lati. Dalle carciofaie oltre i tre anni si ottiene una miriade di piccoli carciofi, comunque utilizzabili per produrre i classici carciofini sott’olio. Nel bacino del Mediterraneo si contano circa 150 varietà, merceologicamente distinte fra spinose e non spinose. Alle prime appartengono lo Spinoso di Liguria, affusolato e ben serrato, con spine molto aguzze, il precoce Spinoso di Palermo e soprattutto lo Spinoso sardo, diffuso anche in Sicilia e nel Lazio, tenero e molto saporito, caratterizzato da compattezza e foglie ben serrate, con lungo calendario di raccolta da ottobre a tutta la primavera successiva. Tra le varietà inermi, o senza spine, le più rinomate sono il Violetto di Catania (50% del prodotto italiano, una ventina di tagli tra ottobre e maggio), il Carciofo di Paestum Igp e il Romanesco del Lazio Igp. Una certa rinomanza locale hanno varietà più circoscritte, come il Violetto di Ponza, il Precoce di Jesi  o le tenere Castraure della laguna veneta. La storia del Carciofo è piuttosto controversa,  poiché si tende a confondere  la specie selvatica Cynara cardunculus con il Carciofo coltivato attuale. Un affresco risalente al 200 a.C. nelle grotte di Ajanta, in India, mostra un monaco mendicante che ha in mano tre carciofi. Si sa per certo che Egizi e Greci, e successivamente Etruschi e Romani già coltivavano un tipo imprecisato di cardo, chiamato cardui pineae da Teofrasto, con ogni probabilità affine ai piccoli carciofi selvatici con ciuffetto centrale peloso, del genere cynara cardunculus, tuttora molto diffusi in tutta la fascia tirrenica dell’Alto Lazio, localmente detti sgalere, dal latino galerus, ispido copricapo dei villici. Columella (I sec d.C.), descrive  nel suo “De re rustica” la cinara hispida, facendone risalire l’etimologia alla consuetudine di concimare con la cenere (cinis), mentre altri ritengono che il nome derivi dal colore cinereo delle foglie. Il Carciofo ha perfino ispirato la leggenda mitologica della ninfa Cynara, bellissima ma capricciosa, tramutata da Giove, innamorato ma spazientito, in ortaggio elegante, ma irto di spine. Secondo l’ipotesi più accreditata, il carciofo attuale sarebbe stato selezionato nell’Italia del Rinascimento, forse a Napoli, e poi portato a Firenze nel 1466 da Filippo Strozzi. Nei trattati di cucina del XVI secolo si moltiplicano le citazioni: nel 1549 Cristoforo da Messisbugo con un “ pastello di carchiofoli” e nel 1570 lo Scappi, mentre il Felici (1569) afferma che “i carcioffi o artichiocchi che da’ Latini carduus ancora si dice [….] cognosciuti da tutti hormai, sono in gran reputatione appresso de’ grandi. E si magnano crudi, […] poi ancora cotti in diversi modi […] e sonno simili ad una pigna, con le sue squamme strette ed unite.”  Una marcia trionfale che prosegue nei secoli successivi, facendo esclamare a Grimod de La Reyniere: “Il carciofo rende grandi servigi alla cucina: quasi mai non si può farne a meno, quando manca è una vera disgrazia. Dobbiamo aggiungere che è un cibo molto sano, nutriente, stomatico e leggermente afrodisiaco”.

Per molto tempo la vecchia scuola dei sommelier ha ritenuto inabbinabile il Carciofo, a causa del contenuto in ferro e cinarina, responsabili di  amaro e metallico. Ma provate, su un Carciofo alla Giudìa, la cremosa morbidezza di un bianco come Le Vignole di Colle Picchioni, oppure, su un fritto di costolette d’abbacchio e carciofi panati, un Lambrusco elegante come il Metodo Classico

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