Bibenda
Bibenda, per rendere più seducenti la cultura e l’immagine del vino.
Visualizza tutte le notizie
Il fattore “K” (come Kurtura)
Pubblicato il 12/10/2012
Fotografia

Chi ha detto che bisogna sempre e solo parlare delle “eccellenze enogastronomiche del nostro Paese”. Dei vignaioli che sono artisti e i cuochi che sono poeti (o viceversa). Anche parlare delle “deficienze enogastronomiche del nostro Paese” può essere utile: evita al lettore di incappare in brutte esperienze - lo scrivente s’è immolato per voi, nella circostanza - e offre al produttore o ristoratore l’occasione per mettersi in discussione. Ammesso che il messaggio arrivi a destinazione, oltrepassando la cortina nebbiosa del “fattore K”.

Poniamo di trovarsi al porto turistico di Ostia, un sabato soleggiato di ottobre, e voler provare “La taverna del Porto”. Ecco lo schieramento: spaghetti alle vongole/spigola alla griglia/insalata. Sorvoliamo sulla creatività della proposta: non sia detto che ciò che è semplice è mediocre.

Quanto è lecito attendere per vedersi servire, sedendosi al tavolo alle 13,10 a locale praticamente vuoto, il suddetto menù fisso di cui è tappezzato l’ingresso del ristorante (venghino, siori, venghino)? Dite che un’ora e tre quarti è troppo? Effettivamente. D’altronde l’unica cameriera non poteva fare più che rimbalzare da un tavolo all’altro come pallina di un flipper.

Poniamo poi che la pasta fosse appena ordinaria e la spigola pre-carbonizzata, che il vino fosse ormai caldo dopo averne chiesto inutilmente la refrigerazione, che l’acqua fosse finita già da tempo come pure le risorse della cameriera-flipper. Una rimostranza s’imporrebbe. All’uopo comparve al tavolo “la responsabile” pronta a ribattere, alle mie segnalazioni, “che strano, tutti gli altri clienti sono soddisfatti” (errato: erano silenti. E’ diverso), pertanto il problema ero io (!). Seguono musi lunghi - come se la protesta di un cliente fosse un affronto personale - e mancato prelievo dei piatti sporchi sulla tavola (semplice dimenticanza, di sicuro: non siamo maliziosi).

All’atto del pagamento, “il responsabile” mi dedica le testuali parole: “voi - plurale maiestatico, è ovvio - siete abituati al cibo precotto... la cucina espressa ha i suoi tempi. Ma non tutti capiscono la qualità” - con espressione amaramente rassegnata di fronte alla pochezza di certi clienti...

In sostanza un cliente che protesta è un cliente che non capisce. Un problema di cultura.

Uscendo, faccio due passi al sole per sgranchirmi dopo due ore seduto. Ripenso alle tante volte che in USA, in ristoranti comuni non allo Sheraton, ho visto camerieri, costernati e impalliditi dopo semplici commenti di un cliente su una finestra chiusa male o un cubetto di ghiaccio di troppo, prodigarsi per rimediare. Non credo dipenda dalle ricche mance americane. La chiave è la propensione a considerare il cliente, cioè il mercato, come il centro della propria attenzione. Il senso stesso del proprio mestiere. Ne consegue un cliente consapevole ed esigente, invece che silente.

Forse è davvero un problema di cultura. Anzi, de’ kurtura.

© RIPRODUZIONE RISERVATA