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L'EDITORIALE / Il Cupolone
Pubblicato il 24/11/2020
Fotografia
È lì. Sempre lì. Scontatamente maestosa e imponente.  Guarda la Città. Guarda il Fiume. Guarda me che dal ponte, fissandola, come sempre mi emoziona. È la Cupola: è Michelangelo.  È il Cupolone: è Roma.

Accanto a me dei ragazzi, parlando concitatamente al cellulare, rinunciano ad un appuntamento: "Non se ne fa niente: domani sera è tutto chiuso". Prima irritati, poi scherzando con sarcasmo, si allontanano. Appoggiato al parapetto guardo gli ultimi raggi di sole che rendono la Cupola ancora più austera e dominante. Scruta, vaglia, giudica il mondo che sotto di lei trema nevroticamente indifeso per l'assedio asfissiante di questo male.

È incredula davanti al crollo collettivo.

Sociologicamente è la scoperta di una inaspettata fragilità con radici deboli come quelle di tanti pini di Roma. Perché? Solo frenetica paura? No. Forse qualcosa si è incrinato: l'angoscia di oggi nasce dalla consapevole mancanza di quelle certezze che si concretizzano con il confronto interiore che non trova le proprie origini; ma è indelebile il patrimonio ereditato come è malinconica l'immagine di un legame ormai smarrito.  Lavoro, sudore, passione. Vivere lottando senza mai resa, animati da solida forza contadina anche quando una sconfortante "vendemmia" annichiliva la speranza. La cultura della "vendemmia", del "vino", la ricerca del risultato sono il comune denominatore di tante generazioni.

Il vino è il totem identificativo del lavoro: sostentamento, conforto, gioia di vivere, incrollabile fiducia. Dal remoto della storia di questo Paese emerge splendidamente l'esempio della tenacia di quei monaci che quindici secoli fa preservarono dalla furia barbarica le viti, salvando con loro anche la nostra cultura, fatta di saggezza e creatività che, forse da inconsapevoli, ci ha forgiato e strutturato.

Ecco i filari allineati su dolci colline, ecco i vitigni rabbiosamente aggrappati su impossibili terrazzamenti: sono l'esempio dell'Italia del "credere", del "volere" a tutti i costi.

È nel giusto chi afferma che oggi cerchiamo di lenire le ansie cercando rilassatezza nel ricordo di lontane piacevolezze, facendo rivivere nella nostra memoria qualcosa che sembra perduto. È il desiderio dei colori dell'arcobaleno che possano dissolvere il bianco, il nero, il grigio. La ricerca della bellezza salverà il mondo, profetizzava Dostoevskij. E la bellezza è anche il colore, il profumo, il sapore del vino, da sempre attrazione fatale perché pilastro del nostro patrimonio. Ormai un ultimo chiarore, nella sera che avanza, accarezza la Cupola. La lascio confortato e, non so perché, più fiducioso mentre Lei guarda me, guarda il Fiume, guarda Roma.

Federico Sorgente
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