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F come Frisella
Pubblicato il 29/04/2016
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Per decreto del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, rientrano nell’elenco ufficiale dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali (PAT) delle regioni Campania, Puglia, Basilicata e Calabria. Prodotta con i medesimi ingredienti del pane di grano duro, la Frisella è tuttavia alternativa ad esso, con in più la prerogativa di conservarsi molto a lungo, grazie al processo di biscottatura che la rende completamente asciutta. Sempre pronta al consumo, è comunque necessario reidratarla preventivamente in acqua fresca, affinché si ammorbidisca e possa assorbire il condimento. La lavorazione è identica a quella del tarallo, ma se ne differenzia perché, dopo una prima cottura, ogni pezzo viene diviso a metà in orizzontale, mai, però, con un taglio netto di lama, ma, caratteristicamente, con uno spago, in maniera tale da ottenere una superficie irregolare e porosa. Entrambe le metà passano poi nuovamente in forno per la biscottatura.


A fine cottura, perciò, ogni Frisella presenta due facce diverse: una liscia e compatta, vagamente arrotondata, che funge da base, e l’altra scabrosa a mo’ di spugna, idonea all’imbibizione e a trattenere il condimento. Che per i braccianti e i marinai di un tempo poteva essere semplicemente acqua e sale, al massimo con un filo d’olio e qualche erba aromatica, oggi è tradizionalmente pomodoro a pezzi con olio e origano,  previa sfregatina a secco con uno spicchio d’aglio, come è d’uso in Puglia, e in particolar modo nel Salento, ove la “Frisedda” è autentico totem gastronomico. Ma anche a Bari e nella Murgia le Friselle (talvolta dette “ciallèdde”, letteralmente “piccole cialde”) si consumano in mille modi, senza escludere inconsuete versioni in bianco con burrata, carciofini e lampascioni servite come raffinato antipasto in ristoranti particolarmente attenti alle risorse del territorio. La materia prima di base sono i pregiati grani del Salento o della Capitanata, possibilmente moliti nelle macine tradizionali.


Non è da meno la Campania,  ove l’arte della panificazione era già raffinatissima ai tempi di Pompei, quando i forni producevano almeno una decina di tipologie, e persino biscotti per cani. Qui la Frisella pugliese muta la“i” in “e” e diventa Fresella. Preparazione, forma e dimensioni non differiscono molto, ma assai più vario e barocco è il canonico condimento: a Napoli, ad esempio, le freselle ammollate accolgono un mix di freschi ingredienti estivi, come dadolata di pomodoro, basilico, olive, mozzarella, alici o tonno sminuzzato, a comporre un piatto noto come Caponata (niente a che vedere con la Caponata siciliana!); fuori del capoluogo esiste però anche la Fresella Beneventana “’nzogna e pepe”, tipica del periodo pasquale, non biscottata, simile a un tortano senza ripieno destinato ad accompagnare salumi e formaggi. Va rilevato, inoltre, che assai di frequente, tra i personaggi caratteristici degli storici presepi napoletani, si incontra il venditore di taralli, adorno di collane di mercanzia, in atto di richiamare compratori con la mano a megafono. A guardar bene, però, quei taralli infilati in uno spago ricordano molto le nostre freselle, a conferma dell’origine arcaica e pastorale di tale cibo, parente prossimo del Carasau di Sardegna per tecnica produttiva affine, praticità d’uso e conservabilità praticamente illimitata, fungendo da preziosa scorta nelle annate magre o in periodi di guerra e carestia. A quanto pare, un tipo di pane molto simile era fornito alle armate cristiane in partenza per Gerusalemme, tanto che in Puglia la Frisella viene ancor oggi popolarmente detta Pane dei Crociati.
 

La Frisella era per eccellenza pane da viaggio o da trasferta temporanea lontano dal focolare domestico abituale; ad esempio nel caso dei braccianti, oppure dei pescatori, che la bagnavano direttamente in acqua di mare o nel fondo delle zuppe di pesce e mitili che si preparavano a bordo, durante le battute di pesca che potevano durare più giorni. Occorre inoltre ricordare che, nella tradizione contadina comune a tutto il Mezzogiorno, erano soprattuttoi forni a legna comunitari o pubblici ad assicurare la regolare disponibilità di pane fresco, con intervalli di panificazione che non erano mai quotidiani, ma andavano dal bisettimanale al trimestrale, a seconda del periodo. In genere si panificava quando più famiglie associate conferivano un quantitativo di farina sufficiente a una cotta da almeno un quintale di pani di pezzatura medio-grande, atti a durare perlomeno una o due settimane. Buona parte dell'impasto veniva sempre riservata alla panificazione "secca", in modo da garantire una riserva domestica che nel Salento si conservava negli orci di terracotta detti “capasoni”.  Non appartiene invece alla tradizione, ma trattasi di invenzione moderna, il divertente e pratico “sponzafrise” creato dai maestri della ceramica di Grottaglie per facilitare la bagnatura della Fresella, in pratica una terrina alla quale aderisce un mezzo piatto bucherellato . La “sponzatura”, infatti, è un’operazione importante, che va eseguita con precisione e criterio, tenendo conto dell’umidità relativa del prodotto e perfino delle condizioni atmosferiche: se la Fresella non è uniformemente reidratata, rimarranno zone spiacevolmente dure, se all’opposto la bagnatura è troppo abbondante, il rischio è di ritrovarsi nel piatto un cumulo di briciole acquose assai poco appetibili. Solo se sponzata al punto giusto, la Fresella sposerà il classico condimento di extravergine, pomodori e origano, con l’opzione di qualche fettina di cetriolo o di fiordilatte, e sarà piatto da re, pronto in pochi minuti senza nemmeno accendere i fornelli. Massima esaltazione con un rosato davvero confidenziale (appena 380 bottiglie), da filari di Barbera impiantati oltre 40 anni fa sui colli di Salerno, leggiadra creatura enologica di Rino Di Maggio, già Lunarossa, ora Brama vini. Per dirla con le sue parole, “Cerasella è una scugnizza sfrontata che corre a piedi nudi, nei campi,in un pomeriggio di luglio. Può rubarti il cuore, ma attento all’anima”.

 

 

 

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