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Personaggi etnei
Pubblicato il 12/12/2014
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Ottobre regala ancora giornate calde nell’Etna, nonostante l’aria fresca autunnale penetri la pelle nelle zone d’ombra, lontane dal sole. Il cielo terso, azzurro intenso, irradia di luce cristallina, creando un senso di benessere che non solo giova alla vigna, ma a tutta la ricca biodiversità che caratterizza questa terra lavica. L’Etna lascia un segno profondo e si fa amare sin da subito non appena da Catania si lascia alle spalle la città per entrare in un quadro metafisico dove realtà e visione si fondono, in un mondo che sembra dimenticato nella sua bellezza selvaggia. L’impressione è di un paesaggio lasciato al suo corso, senza che l’uomo, ancora, sia riuscito a scalfire un concetto di natura vero, fatto di luoghi irregolari, vigne senza ordine, cantine che non sembrano cantine (almeno da fuori) e di gente che questa terra la ama dal profondo.

Arriviamo e la vendemmia è appena iniziata, nell’aria si respira il mosto, chi lavora in vigna e chi vinifica in cantina, c’è concitazione, ma anche serenità, perché l’annata è stata favorevole e da tutti considerata tra le migliori. Le piante centenarie sono ancora cariche di frutto, nella tipica coltivazione ad alberello, la terra è incolta e camminando tra la vigna si è travolti da sensazioni di finocchietto selvatico, origano, mentuccia e rosmarino, in un crescendo che a volte sembra incenso e che a tratti distoglie l’attenzione dal vigneto labirinto, dove solo coloro che conoscono i loro luoghi, metro dopo metro, riescono ad orientarsi. Tocco con mano la terra scura, che si scompone tra le mie dita come polvere lavica, segnando di color rosso scuro il palmo della mano. Terra ricca di minerali, ma povera di humus, qui la vigna per sopravvivere deve spingere nel profondo nutrendosi di azoto, potassio, ferro, fosforo. Sono piante che trasudano di storia centenaria e raccontano di generazioni, di gente che ha calpestato la stesso suolo e compiuto gli stessi gesti nel rituale della vendemmia. Ed è questa gente che anima le pendici etnee a rendere il vulcano un luogo da ricordare, con la loro innata ospitalità e un profondo attaccamento alle proprie radici.

Non c’è terroir senza la presenza dell’uomo e non c’è vino senza sensibilità e conoscenza e qui, più che altrove, questo concetto è ribadito con forza da personaggi che credono profondamente ad una terra che l’hanno vissuta sin da bambini.

Quando mi misi in contatto con Salvo Foti, protagonista indiscusso della rinascita etnea, non ebbi molte illusioni. Poche furono le mie speranze di poterlo incontrare, visto la sua reputazione nel mondo enologico e considerato, invece, la mia sola passione. Ma, contrariamente alle aspettative, Salvo fu sin da subito molto disponibile, ribadendo l’ospitalità che caratterizza la Sicilia e rivelando un animo che crede che ognuno di noi ha qualcosa da raccontare, indipendentemente dalla fama. Catanese d’origine, inizia la sua carriera di enologo nei primissimi anni ’80 collaborando con note aziende sicule, in un impegno che lo vede protagonista sia come docente universitario, che ricercatore scientifico e consulente. Vive il mondo del vino a tutto tondo, cercando di raccontare in ogni bicchiere, quello che lui chiama “un suono che viene da lontano” e che si rinnova alla mescita echeggiando un tempo che fu. Il recupero di vecchi palmenti, l’attenzione alle varietà etnee, lo stretto legame con la coltivazione ad alberello, sono i principi motori del suo lavoro, sono l’orgoglio che si rivela ad ogni sorso lasciando parlare il vino e null’altro. Il Vinupetra 2002, bevuto insieme a Randazzo, si presenta color granato nell’uniforme trasparenza, rivelando al naso un ampia gamma di sensazioni che gradualmente avvolgono l’olfatto tra la foglia d’alloro, la mentuccia, il frutto di giuggiola, la cenere lavica. Sembra di camminare tra la vigna centenaria, da lui stesso recuperata, insieme ai collaboratori del gruppo dei Vigneri, consorzio istituito per la salvaguardia del patrimonio ambientale etneo. Perfetto l’equilibrio gustativo, dal tannino nobile e stemperato, smussato dolcemente dal tempo, per un Nerello Mascalese di dodici anni ancora in perfetta forma. Vino di grande progressione gustativa e tridimensionalità, dal finale lungo ed appagante, irresistibile la beva. Ricorda un Barbaresco evoluto intriso di Mediterraneo e non è una follia pensare al Nebbiolo, ma un confronto che regge perfettamente per due perle del panorama ampelografico italiano che da nord a sud fanno del nostro Paese un mondo tutto da scoprire.

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