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Iterum de vinis naturalibus
Pubblicato il 09/03/2012
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Lo ammetto, sono un po’ pignolo e di norma piuttosto rigido. Ma se c’è un ambito nel quale mi sento insolitamente elastico, questo è proprio il mondo del vino. Lo scorso 3 marzo, in attesa del mio intervento in occasione del Bibenda Day, stimolato dalle degustazioni guidate dai miei amici e colleghi, mi sono trovato a riflettere - per l’ennesima volta - sulla vexata quaestio dei vini (presunti) naturali. Stavo assaggiando voluttuose meraviglie enoiche, frutto certamente del carattere dei luoghi, ma non meno delle idee degli uomini, della loro genialità, della loro lungimiranza, delle loro scelte perfette, talora tradizionali, talora rivoluzionarie. Allo stesso modo frutto dei metodi adottati, a volte biologici o biodinamici, a volte no. In alcuni casi si trattava di bottiglie prodotte in quantità amatoriali da veri artigiani del vino, ma in altri di bottiglie realizzate in numero rilevante, e non per questo di minor classe. Dove sta scritto che “piccolo” è sempre bello?

Ritorno volentieri, insomma, sul tema che già è stato qui trattato con lucidità da Massimo Billetto.

Esorterei gli estremisti del vino “naturale” a bere quello che vogliono, ma anche a evitare, se possibile, di pontificare. Nessuno mette in dubbio che non sia tollerabile una produzione enologica basata su bombardamenti di pesticidi e anticrittogamici in vigna, di mosti concentrati e aromi (pseudo)naturali in cantina. Ma da qui a sostenere che l’autenticità del vino sia frutto esclusivamente di fenomeni gestiti da madre natura ce ne passa! Il vino è un prodotto “culturale” assai più che naturale! Senza l’uomo l’uva crescerebbe solo per propagare la specie e - semmai - per divenire aceto. Il vino è chimica, “noi” siamo chimica. Certo, questo non vuol dire che vi si possa aggiungere di tutto. Se vogliamo combattere tutti insieme in nome di alimenti più sani, questo ben venga, ma almeno non andiamo a senso unico. Chissà perché nessuno se la prende con la stessa foga contro la pasta fatta con grano transgenico e proveniente magari dall’Ucraina (Chernobyl, do you remember?) o contro lo zucchero da cucina trattato con la formaldeide o contro l’enorme quantità di aromi “naturali” (che seppur tali non sarebbero “naturalmente” presenti dove li mettono!) aggiunti ovunque, dalle merendine ai succhi di frutta. No, certi prodotti non si toccano. Se fossi malizioso, direi che la potenza economica delle multinazionali potrebbe entrarci qualcosa. Con il vino, invece, che - tranne pochi casi - muove cifre di tutt’altra entità, vale tutto…

E come la mettiamo con gli scassi e i terrazzamenti dei vigneti? Non saranno un traforo in Val di Susa, ma siamo proprio sicuri che rispettino la morfologia “naturale” del territorio? Insomma un po’ di equilibrio e di elasticità non guasterebbero.

Alla fine di questi pensieri, tornando a mettere il naso nei calici dei favolosi Champagne che avevo davanti, mi è venuto in mente che se c’è un vino “tecnologico” per eccellenza, questo è proprio lo Champagne. Chissà se i vinoveristi duri e puri lo bevono…

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