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Nippo cuisine e sake
Pubblicato il 13/05/2016
Fotografia

Mare, vino e sake sono le tre icone di Michele Brando, sommelier del ristorante Zuma a Roma in via della Fontanella Borghese 48. Il mare perché Michele è di Palermo e lavora come sommelier di vino e di sake in tutto il mondo, ora si è fermato a Roma.

Caratteristica comune a tutti i 9 Zuma, dal primo fondato a Londra fino alla new entry romana è la cucina giapponese contemporanea ma io ho bisogno di un addetto ai lavori per l’abbinamento cibo-sake e chiedo consigli a Michele. Mi accorgo dal tasting menù che sto per assistere ad una lezione di giappo cuisine, con snacks , piatti freddi e tiepidi, pesce e carne grigliati sulla robata (la griglia tipica giapponese simile al barbecue, ottima per gli spiedini), zuppe e insalate. Tutto cucinato a vista.

Inizio dal granchio blu con maionese wasabi home made; poi i  gyoza, i ravioli originari cinesi che,  come il ramen, sono entrati a far parte della cucina giapponese.  Qui, li trovo ripieni di merluzzo nero e gamberi ma i gyoza tradizionali vengono riempiti con maiale o manzo. Continuo con i cetriolini all’agordolce, yuzu (un agrume dell’isola di Shikoku) piccante e fiocchi di bonito, ossia delle fettine sottilissime di tonno bonito affumicate e seccate. Nella cucina giapponese, questi fiocchi di tonno vengono usati sia nella preparazione del dashi, il leggero e limpido brodo base di molte ricette, sia nella soba, cioè le “tagliatelle”di grano saraceno, e nella zuppa di miso.

Quando arrivano i piatti freddi, col carpaccio di branzino, olio al tartufo e uova di salmone arriva anche Michele col primo sake, il Dewanoyuki kimoto, junmai: un tipo di sake con note fruttate di melone giallo e litchi, prodotto col metodo speciale “kimoto”, che aggiunge pienezza e fragranza agli aromi ed è levigato fino al 65% di Seimai Buai e solo riso Miyamanishiki della prefettura di Yamagata. Michele mi spiega che la tecnica tradizionale Kimoto richiede fino a 25 giorni di lavoro in più per il mescolamento dello shubo (la madre del sake), così da permetterne la naturale produzione dell'acido lattico che serve allo shubo per avere acidità sufficiente a fermentare i lieviti. Molte sakagura, cioè le case di produzione del sake ,hanno lasciato il metodo Kimoto per dedicarsi a produzioni meno tradizionali ma più veloci, come l’aggiunta dall'esterno di acido lattico.

Il sake e il rituale in cui viene servito mi conquistano (deve assolutamente essere servito, non si può versarlo da sé nel proprio bicchiere), ne provo un altro accanto al manzo di wagyu sulla griglia (robata), con wasabi fresco grattugiato espresso. Questa volta l’abbinamento è con il ninki ichi gold, junmai daiginjo, un sake che profuma di mela verde, melone e lieviti, in bocca emergono mandorle amare, banana e crema pasticcera, un sake particolarmente persistente.

Termino la mia lezione-pranzo col chawanmushi, anche se in Giappone si usa come antipasto: un budino con base di latte e uova servito tipicamente in una ciotola per il tè. Alla base di uova si possono aggiungere funghi, gamberetti bolliti e kamaboko (un tipo di surimi), con salsa di soia o dashi.

La mia nippo-lesson-lunch termina con un caffè italianissimo e Michele mi saluta con l’ultimo aneddoto: “Sake" è un termine che in Giappone indica qualunque alcolico, ma nella cultura occidentale viene usato spesso come riferimento al solo vino di riso giapponese o Nihonshu. Buono a sapersi!

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