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Della Terra il calor che si fa vino
Pubblicato il 01/04/2016
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Anche nel 1266 la Pasqua cadde bassa: il ventotto, un giorno dopo rispetto al ventisette di quest’anno; solo, settecentocinquant’anni prima.

Tre quarti di millennio esatti ci separano dal Battesimo di Durante di Alighiero degli Alighieri, Padre Dante per gli amici. Come da tradizione, fu battezzato nella notte fra il Sabato Santo e la Pasqua: già grandicello, essendo nato nel giugno dell’anno precedente – e dunque quasi dieci mesi prima –.

Il tema di questo articoletto si scrive da sé.

Su “Dante e il vino” s’è detto molto, specie a partire dai celebri versi: «Guarda il calor del sol che si fa vino, | giunto al’omor che della vite cola.» (“Purgatorio”, XXV 77-78). I versi riecheggiano un passo ciceroniano, ma – come spesso nel Poema – lo usano per rivestire un concetto teologico: qui è l’anima Razionale che s’infonde in quelle vegetativa e sensitiva. Al di là, però, del significato figurato, ciò che interessa qui è la figura in se: in effetti, in questa citazione, la piú famosa del nostro maggior poeta sul vino perché bellissima, non si parla tanto di vino quanto del succo che diverrà tale.

            Certo, del vino il Nostro aveva una cognizione materialmente informata: prova ne sia la citazione (in “Paradiso”, XII 114) della “gromma”, sorta di incrostazione la cui presenza nelle botti si diceva garantire la buona qualità(!) del prodotto.

Il vino propriamente detto è citato in due punti del “Purgatorio” e del “Convivio”, e sempre come l’oggetto degli eccessi del vizio: «[…] velando gli occhi e con le gambe avvolte, | a guisa di cui vino o sonno piega […]» (Pg.XV,123); «[…] altri sono vizii consuetudinarii, a li quali non ha colpa la complessione ma la consuetudine, sì come la intemperanza, e massimamente del vino […]» (Cv.III,vjjj,17).

L’unico vino citato a nome nell’opera omnia del Nostro è (al ventiquattresimo verso del Ventiquattresimo Canto del “Purgatorio”: «E purga per digiuno | l’anguille di Bolsena e la vernaccia.») una Vernaccia delle Cinque Terre alla quale troppo aveva indulto Papa Martino IV: ancora una volta, dunque, il vino è un’occasione per peccare.

            Devo far notare che l’idea edonistico-carnascialesa dell’eccesso come via alla perdita ed alla riscoperta di sé stessi, che tanto attrarrà certa Cultura successiva, è affatto estranea a Dante Alighieri. Duole ad un sommelier per passione e letterato per professione (o era il contrario?) come me dover scrivere che il vino non era, dunque, ben visto dal Nostro.

Credo che la ragione di questa condanna – perché di ciò si tratta – sia da ricercare nella natura tutta terrena del vino: se l’eccesso d’amore è peccato, l’amore puro eleva al Cielo; se la superbia e l’invidia sono peccato, la volontà di migliorarsi porta al perfezionamento. Ma il vino non era considerato (come da noi) un elemento culturale: era tutto cosa terrena, e questo è imperdonabile per un’opera che faccia della tensione fra Terra e Cielo il proprio centro. Ma per noi lettori è bello cogliere in questa visione del vino come espressione solo terrena dell’Uomo (quasi un’espressione par excellence di questo nostro stare in questo Mondo) un’ulteriore precognizione di Padre Dante delle Idee che sarebbero nate nei Tempi che sarebbero stati.

           

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