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F come Fonduta
Pubblicato il 12/02/2016
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Caposaldo dell’edonismo culinario, la Fonduta si configura come vero e proprio rito conviviale, ove la materia prima è già porzionata in bocconi, pronta per una rapida cottura, alla quale dovrà provvedere ciascuno dei commensali riuniti a tavola, munito di apposita forchetta-spiedino con la quale attingere a turno da un recipiente centrale posto su fornello. Le varianti moderne innovative sono molte, dalla Fonduta cinese in brodo con ingredienti misti alla Fonduta dolce, ove si immergono nel cioccolato fuso fragole, rondelle di banana e dadolata di frutta di ogni tipo.

La variante più celebre, assurta a notorietà internazionale, è senza dubbio la Fondue Bourguignonne, che prevede l’immersione di fettine o cubetti di carne di manzo (Charolais, o altra sceltissima) nell’apposito recipiente centrale (ramequin in francese, caquelon per gli svizzeri) pieno di olio sfrigolante. La Fonduta originale nasce però come piatto di recupero del comparto lattiero-caseario, attività prevalente delle comunità alpine occidentali, a cavallo tra Svizzera, Francia e Italia, con epicentro nella Savoia, da cui il nome di Fondue savoyarde. Lo conferma Anthelme Brillat-Savarin, che nella sua „Fisiologia del gusto“  definisce la Fonduta, già nel primo quarto dell’ottocento, “piatto antico, originario della Svizzera“.  Antico addirittura di millenni, se vogliamo considerare come antenato quel prelibato miscuglio di “vino pramnio, formaggio grattugiato e candida farina” che nell'Iliade Nestore reca in dono a Macaone, mitico guaritore figlio di Asclepio. Se ancestrale è la consuetudine di far fondere il formaggio, non sembra però plausibile che la Fonduta, così come noi la conosciamo, sia un’invenzione del tutto popolare, considerando che formaggi come il Gruyère erano generi di lusso, esportati a Torino e Lione, mentre i montanari, casari compresi, erano poverissimi. Non a caso, la prima ricetta scritta è del 1699, e si trova a Zurigo. La Fonduta viene dunque codificata in ambito cittadino e borghese, per diventare piatto alla moda chic e informale solo negli anni Cinquanta- Sessanta, sull’onda dei primi flussi turistici e del boom degli sport invernali, in ciò favorita da una trovata pubblicitaria dell’Union des Fromagers Suisses che, volendo rilanciare i consumi, aveva pensato bene di fare omaggio all’esercito e allo sci club di un certo numero di fornelletti da Fonduta, presentata come pietanza di facile preparazione, atta a corroborare sportivi ed escursionisti.
Oggi è l’Emmental il formaggio più utilizzato, ma un po‘ tutte le tipologie svizzere si prestano bene, al punto che diversi cantoni rivendicano, per distinguersi, una loro propria Fondue. Oltre alla Savoyarde classica, troviamo perciò la Fribourgeoise a base di Vacherin, la Neuchâteloise metà Gruyère e metà Emmental, l’Appenzeller al 100% del formaggio omonimo, mentre nella Svizzera centrale si usa1/3 ciascuno di Gruyère, Emmental e Sbrinz. Nel Vallese si usa il locale Raclette, che viene direttamente “raschiato” dalla forma (“raclé”, da cui il nome) su una fonte di calore, che subito lo fa fondere. Specialità tutta italiana è la Fondue Valdôtaine, a base di Fontina Dop. Avvertenza importante: chi vuol evitare cocenti delusioni, eviti le preparazioni industriali monoporzione da riscaldare nel microonde, prossime al grado zero della piacevolezza organolettica. Per officiare al meglio il rito della Fonduta, è necessario un ampio spazio, atto ad accogliere un certo numero di convitati; l’ideale è un bel tavolo rotondo, al centro del quale va collocato l’apposito fornello, atto a mantenere a calore uniforme il sovrastante tegame di terracotta o ghisa smaltata. All’interno di esso, preventivamente sfregato con aglio, va portato a completa fusione il formaggio, avendo cura di rimescolare fino a ottenere una consistenza cremosa e senza grumi.

Diversi ingredienti facoltativi sono ammessi per incrementare complessità e profumo della preparazione, dal semplice pizzico di pepe di mulinello a pezzetti di fungo come spugnole o finferli, o ancora acquavite o vino bianco (tipicamente, il Fendant del Valais, localmente il prediletto in accompagnamento; in alternativa, provate la rara, nobilmente minerale Amigne de Vétroz, di Germanier-Balavaud) che ne accentuano la cremosità. Dal recipiente in posizione centrale ogni commensale attinge immergendo nel formaggio fuso un crostino di polenta o di patata (tipica della Fonduta di Friburgo), o una fettina di pane raffermo col solito optional della sfregatina con aglio. L’aggiunta di un po’ di sidro o di vino dovrebbero inoltre evitare la formazione della classica crosticina sul fondo, la cosiddetta “réligieuse”, peraltro apprezzata da alcuni come il boccone migliore.

Infine, ingrediente non scritto, ma fondamentale per il buon esito, è quella gaia condivisione, quello spirito conviviale così ben descritto, nel suo “Zéro positif”,  da Anne-Lise Grobety, delicatissima scrittrice romanda troppo presto scomparsa: “Ed eccoci qui tutti quanti, radunati attorno a un’allegra Fondue, l’ideale per legare socialmente, in quell’atmosfera così egualitaria, senza distinzione di sesso, tutti attorno allo stesso fornello. Tra colline di pane bianco, profumi di kirsch e tintinnare di biondi calici, nel confortante calore si ride, si gesticola, si scherza seduti alla medesima tavola, attorno alla fiammella azzurrina che arde sotto la pentola… che gioia, che magnifica serata! (T.d.A)”


 

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