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Noi la ricordiamo così
Pubblicato il 16/10/2015
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Vogliamo ricordare Paola Di Mauro con le sue stesse parole, quelle che ci rilasciò in un’intervista della primavera del 1993, pubblicata sulla nostra rivista che all’epoca si chiamava Sommelier notizie. Sono parole lungimiranti, di un’attualità senza precedenti. Le parole di una donna speciale.

Come e quando ha iniziato ad occuparsi di vino?

Mai e poi mai avrei pensato di occuparmi di vino. come se mi avessero proposto di andare su marte: era al di fuori di qualsiasi mio pensiero. Nata e vissuta sempre al centro storico di Roma, lavoravo in una azienda che si occupava di commercio all’ingrosso di ferramenta ed ero terribilmente astemia. Tutto avrei potuto immaginare fuorché venire a vivere in campagna, fare vino, conquistare un certo nome. È stata quasi una sorpresa, una gioia, una cosa stranissima. Questa vigna che avevamo acquistato era stata impiantata da un francese che dalla Francia aveva portato i suoi vitigni, i Cabernet Sauvignon e Franc e il Merlot. Sono viti che hanno 60 anni ma questo l’ho imparato dopo, purtroppo nell'ignoranza dell’inizio una parte è stata anche distrutta perché sì conoscevo la pianta della vite come le erbe e le piante della campagna che mia madre mi aveva insegnato a riconoscere ma solo a livello estetico e non perché dalla vigna si producesse l’uva e il vino. Per un po’ di anni ho fatto la pendolare tra qui e la città. Avevamo un contadino che si occupava di tutto finché un anno trascurò di imbottigliare. Quando gliene chiesi il perché lui mi disse che quell’anno non conveniva, che il vino non era buono come gli altri anni. Mi ricordo che esclamai: “allora lei mi ha cambiato la terra!”, perché il vino di questa collinetta è stato sempre rinomato. Da allora, zitta zitta, sono entrata in cantina, ho cominciato ad assaggiare i campioni delle varie botti, a far fare delle analisi, a cercare di capire e a studiare senza dire niente a nessuno. Con la mia mentalità scolastica avevo bisogno di libri, di fare appunti, ho letto libri di enologia, di agraria, di istituti professionali, di tutto. Ho cercato in tutti i modi di capire, di studiare, iniziando da come si lava e si chiude una botte. Sono andata a chiedere di tutto. Ho certi quadernini di allora che fanno ridere… mentre mi creavo questo bagaglio mi capitò un libro che parlava di tutti i grandi vini del mondo, in particolare dei vini francesi, nel quale notai che i grandi vini venivano anche da piccoli appezzamenti, così mi chiesi chissà cosa può venir fuori da qui. È stata un’idea, una specie di sfida.

Ed è certamente una sfida ottenere nella nostra regione dei vini di qualità. Ma lei ci è riuscita. Come?

Le dico sinceramente che nella zona dei Castelli tutti potrebbero fare dei grandi vini perché sono buoni il terreno, il clima, l’esposizione, ma non c’è la tradizione. Rispetto alle zone piemontesi e toscane sperdute, che hanno sempre prodotto vino ma che hanno sempre avuto enormi difficoltà a venderlo sfuso e quindi hanno dovuto pensare ad imbottigliarlo e a renderlo stabile per poterlo commercializzare, qui non hanno sentito questa necessità. Qui i carrettieri a vino di notte caricavano e la mattina dopo in città nel giro di due ore avevano venduto tutto il loro prodotto. Questa enorme facilità di vendere il vino allo stato sfuso non ha dato l’incentivo a imbottigliarlo, a farlo più stabile. I produttori di questa zona hanno un grosso mercato e guadagnano sicuramente di più che a fare un vino elitario. Cosa che non si può inventare da un momento all’altro: dietro c’è un grosso lavoro sia nella vigna che nella cantina. Per portare una bottiglia a quel livello di qualità e poterla vendere a quei prezzi che per la zona possono logicamente sembrare cari, io non parto dallo stesso prodotto. Queste persone hanno fatto delle scelte forse più remunerative. A me non interessava. E forse ho potuto portare un’idea completamente nuova proprio perché ero estranea all’ambiente.

Per avere prestigio basta produrre un buon vino oppure contano di più altri fattori quali la promozione, le amicizie, la veste del prodotto? Insomma, secondo lei, si può avere successo anche producendo un vino mediocre?

Ci sono tante scelte che si possono fare nella vita. Nella mia famiglia ci hanno insegnato che bisogna essere delle persone estremamente oneste, capaci e dare sempre quello che si promette, senza correre dietro il facile guadagno che potrebbe anche andar bene ma che a lungo non ripaga. Piano piano, con molta volontà, sacrificio e modestia cercare di dare sempre il massimo. Poi ho avuto la fortuna di incontrare tante persone che hanno creduto in questi prodotti, che ne hanno parlato e li hanno pubblicizzati con entusiasmo, al di fuori di ogni interesse. Guardi, l'anno prossimo avrò settant’anni (è difficile crederlo! Ndr) quindi non poteva essere entusiasmo per una vamp ma il credere ad una persona che vedevano tanto impegnata e poi, in effetti, il prodotto valeva. Così è venuto fuori questo grosso successo. Non pensavo di farne una professione, la cosa più entusiasmante è stata il rinnovo completo del modo di vivere, del pensiero e delle amicizie. Una cosa incredibile che passati 50 anni si ricomincia a vivere in un altro mondo.

Cosa beve Paola Di Mauro? Solo la sua produzione?

Neanche la mia, perché non ho acquisito il gusto del bere. In verità amo molto l'acqua. Mi piace invece degustare e sempre quando mi capita assaggio i vini degli altri. E li faccio assaggiare.

Come immagina il futuro dei produttori di vino?

Penso che per la gente seria ci sia sempre un futuro. Questa crisi che sta investendo tutti i campi, non solo il vino, forse servirà a levare di mezzo tanta gente un po' facile e forse ci sarà da rimboccarsi le maniche come quelli della mia generazione hanno fatto, anche se ragazzi, dopo la guerra. Ne verremo fuori anche se ci vorrà un po' di tempo. È un momento di grandi stravolgimenti perché il mondo non ha più confini e qualsiasi evento si ripercuote da una nazione all'altra. Bisognerà trovare un diverso equilibrio, le nazioni troppo ricche dovranno smetterla di essere troppo egoiste per aiutare anche un po' gli altri, come i singoli troppo ricchi.

Che significa essere produttore donna? Ha dovuto rinunciare a qualcosa?

Sembra strano, ho iniziato a lavorare a 18 anni, 50 anni fa, quando le donne che lavoravano erano molto poche, in un settore completamente ed esclusivamente maschile, io ho avuto la necessità di diventare molto brava, avevo contatti con i professionisti, prendevo impegni tecnici importanti, dovevo seguire tutto, ed avere una schematizzazione di lavoro e di pensiero, bisognava essere molto precisi: essendo donna non mi avrebbero perdonato alcun errore. Io ho lavorato per molti anni prendendo decisioni in prima persona facendo vedere che alle spalle c'era mio padre. Ho sempre avuto un gran senso del dovere e per farmi accettare ho dovuto fare le cose nel miglior modo possibile.

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