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E come Elioconcentrato
Pubblicato il 26/06/2015
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L’Elioconcentrato, detto anche Conserva nera, Estratto o “Strattu” in siciliano, è una salsa iperconcentrata di pomodoro, ottenuta mediante prolungata esposizione del sugo di pomodoro ai raggi del sole, a mezza estate ancora molto forte nell’isola. Unico coadiuvante di lavorazione è il sale marino, che viene aggiunto secondo necessità man mano che il prodotto si disidrata all’aria aperta, fino ad assumere la consistenza di un mastice rossastro, tendente al bruno col passar dei mesi. Specialmente nelle località marine più ventilate e umide, tale graduale processo di essiccazione richiede diversi giorni, ripagando tuttavia con un prodotto di altissima qualità, agli antipodi delle generiche conserve industriali. In quanto produzione tipica siciliana, l’Elioconcentrato è ufficialmente inserito nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani (P.A.T) del Mipaaf, il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali. Perpetuando una tecnica conservativa ancestrale diffusa da secoli in area mediterranea, si sfrutta il calore del sole (hélios, in greco) per essiccare e utilizzare come riserva invernale ogni sorta di prodotti del bosco e dell’orto; nel XVI secolo si aggiunge ad essi il pomodoro arrivato dall'America, considerato in verità mera specie ornamentale fino alle soglie del Settecento, quando oramai caduti superstizioni e sospetti di tossicità, compie il suo esordio nei ricettari gastronomici. La prima citazione come ingrediente di una ricetta è contenuta nello "Scalco alla moderna" di Antonio Latini, stampato a Napoli nel 1692, ove il pomodoro, assieme a un soffritto di cipolla e di erbe aromatiche,  è alla base di una salsa "alla spagnuola" atta ad accompagnare le carni. Solo a partire dal 1839, anno di pubblicazione della "Cucina teorico pratica" di Ippolito Cavalcanti, il pomodoro si afferma come inseparabile compagno della pastasciutta, scalzando la sugna, ossia lo strutto di maiale, fino a quel momento condimento privilegiato, ridimensionato, ma ancora fondamentale nella ricetta del Cavalcanti: “Piglia rotoli 4 de pommodoro, li tagli in croce, li levi la semenza e quella acquiccia, li fai bollire, e quando si sono squagliati li passi al setaccio, e quel sugo lo fai restringere sopra al fuoco, mettendoci un terzo di sugna”. Scrive Giorgio Pedrocco nel volume “Alimentazione” della Storia d’Italia di Einaudi: “L’affermazione dell’industria delle conserve di pomodoro venne preceduta da una parallela affermazione del pomodoro nelle abitudini alimentari degli italiani. Il sugo di pomodoro sostituì il grasso di maiale nel condimento dei piatti più importanti dell’alimentazione popolare, mentre nell’ambito della pluriattività contadina vennero messi a punto sistemi di conservazione per avere disponibile tutto l’anno questo prezioso ortaggio. Dal sugo, cotto in caldaie a cielo aperto e disteso poi su tavole messe a essiccare al sole, si otteneva la “conserva nera” per carni e minestre”. Difficile immaginarlo, ma l’Italia postunitaria era ancora, in massima parte, “in bianco”. A confermare, sia pure indirettamente, tale analisi, è nientemeno che Pellegrino Artusi, che nella sua “Scienza in cucina” del 1891 non sembra attribuire grande importanza al pomodoro, salvo raccomandare, per un piatto molto popolare come la trippa, di insaporirla “con sugo di carne o, non avendo questo, con sugo di pomodoro”. Sul finire dell’Ottocento, Artusi è testimone in diretta degli epocali mutamenti di stile alimentare indotti dal diffondersi del pomodoro, che per sua stessa affermazione “si marita con tante vivande, e fa così ad esse ottima compagnia”. Sempre nell’ultimo quarto dell’Ottocento, la conserva di pomodoro diventa voce di primaria importanza nella nascente food valley del Parmense, ove l’inscatolamento con banda stagnata industriale subentra alla trasformazione casalinga e alle vecchie tecniche conservative del mondo contadino. Nel Mezzogiorno nasce un polo analogo ai piedi del Vesuvio, tra San Giovanni a Teduccio, Scafati e Nola, specializzato soprattutto nella trasformazione dei pelati e nella lavorazione del pregiato San Marzano. Ma permangono, tenaci, anche le vecchie tecniche di conservazione casalinga. In Sicilia, fino alla scorsa generazione, tra fine luglio e agosto, al sole si seccava un po’ tutto: uva, fichi d’india, cotognata, prugne, fichi di ogni tipo, magari da infilare a “filaru”, funghi e prodotti dell’orto e infine, principe di ogni conserva, lo “strattu”. Chi ancora oggi vi si dedica, deve seguire alcune regole auree. Innanzitutto i pomodori da trasformare devono essere impeccabili, perfettamente maturi e di ottima qualità, esenti da ammaccature, muffe o macchie, meglio se da coltivazioni bio. Nella preparazione dello “strattu” fatto in casa, tutta la famiglia è coinvolta, e magari i vicini danno una mano, operando in base a due scuole di pensiero: la prima preferisce la fragranza della passata a crudo, così come esce dalla macchina spremipomodoro, mentre la seconda tecnica, in verità più diffusa, prevede la concentrazione a caldo, che rende anche più stabile il prodotto. In tal caso si tagliano in quarti i pomodori ben lavati, cospargendoli di sale marino grosso per far spurgare la prima acqua di vegetazione, preparando intanto la fornacella con la “quarara”, il classico pentolone di acciaio o di rame, escludendo invece l’alluminio, assai più economico e maneggevole, purtroppo, però, intaccabile dall’acidità del pomodoro. Si lascia restringere a fuoco vivo almeno un’ora, avendo cura di rimescolare di tanto in tanto con il cucchiaio di legno. Il tutto viene passato al setaccio prima di versarlo con cautela nelle "maidde", utensili domestici simili a spianatoie col bordo, essenziali in ogni famiglia. Sulla loro ampia superficie, la passata stesa al sole in strato sottile va “riminata” periodicamente, nella prima fase mantenendo le tavole leggermente inclinate onde agevolare il deflusso della parte liquida: già dopo alcune ore si nota un sostanziale incremento della consistenza. Al tramonto le tavole, ricoperte da una reticella fitta contro polvere e insetti, vanno ritirate per proteggerle da umidità notturna e brezze di mare, suscettibili di far “rivugghiare” (inacidire) il concentrato. L’aggiunta di un pizzico di acido citrico scongiura il pericolo, ma compromette irrimediabilmente la dolcezza avvolgente dell’Elioconcentrato. Il giorno dopo la polpa parzialmente essiccata è di nuovo esposta al sole e spalmata più e più volte sui ripiani di legno, fino a quando, nello spazio di una settimana, viene raggiunta la consistenza desiderata, grazie ai raggi ultravioletti che incrementano al massimo licopene, glucidi, sali minerali e acidi grassi insaturi. Vera e propria bomba di sapore concentrato, lo “strattu” pronto all’uso va riposto in una conca o tegame di coccio, pressandolo un’ultima volta con le mani unte di olio, con o senza aggiunta di qualche profumata foglia di alloro che ne prolunga la conservazione. Inutile dire che le varianti sono infinite quante le famiglie che ancora si dedicano a questa preparazione: c’è chi preferisce conservare in vasi di vetro coperti da una mussolina, chi stende a protezione un filo d’olio extravergine, chi per amore del piccante introduce nella passata un paio di peperoncini profumando magari con qualche foglia di basilico, chi invece alle “maidde” preferisce i grandi vassoi tradizionali in ceramica tipici di Caltagirone e Santo Stefano di Camastra. A detta di costoro, mentre col sistema tradizionale l’estratto risulta più granuloso, dal momento che la tavola di legno tende ad assorbire il liquido del pomodoro, nella ceramica il liquido non si perde, ma si concentra in fase di essiccatura, rendendo l’estratto più omogeneo e cremoso. Da trenta chili di “pomodoro siccagno” (ovvero “atto a seccare”) si dovrebbero ottenere in tal modo all’incirca due-tre chili di “strattu”. La resa è altissima, e ne basta una punta di coltello, sciolto in mezzo bicchiere di Etna Rosso a base Nerello, per mettere il turbo a pietanze come “Milincianeddi ammuttunati (melanzane imbottite), “Purpetti ri sardi (polpette di sarde) e “Farsu magru”. Una noce di estratto (“na’ nucidda, ‘n’anticchia ri strattu”, come si usa dire) è inoltre tocco da maestro sulle paste tradizionali, come quella coi broccoli ripassati in tegame  o la rinomata “pasta ch’i sardi” (pasta con le sarde).

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