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Incontro con Pietrangelo Buttafuoco
Pubblicato il 17/04/2015
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Da alcuni giorni è presente in tutte le librerie il nuovo libro di Pietrangelo Buttafuoco “Il feroce saracino. La guerra dell’Islam. Il califfo alle porte di Roma”, Bompiani. Ricco di falsi miti, attualità, esprime e spiega l’idea dell’Islam differente dall’immaginario collettivo. Per questa occasione, abbiamo scambiato alcune battute con l’autore. Reale figlio di Sicilia. Possiede l’accento, la passionalità, le contraddizioni dell’isola ed incarna le diverse culture che la hanno investita. Si lascia trasportare dalle nuvole tenendo i piedi ben radicati al suolo. In tv appare aggressivo, controcorrente, nel privato esprime delicatezza, emotività. È in grado di uscire dalle situazioni incresciose senza alcun danno. Graffiante negli articoli, romantico e sensibile negli scritti. Brillante e vivace come la Malvasia delle Lipari Hauner Passito Doc 2011.

In che cosa si è evoluto ed involuto il giornalismo negli anni?
In un unico senso. I giornali sono nel frattempo morti. Il giornalismo, invece, no. Non si vede più, per strada, qualcuno con la mazzetta sotto braccio. E così nei treni, negli aerei. Si legge solo via video.

Che valore ha, oggi, la carta stampata?
Tra non molto lo stesso valore delle cabine telefoniche. Ce ne sono ancora, naturalmente, ma sono raramente frequentate. Molte, malinconicamente, si lasciano cadere la cornetta. Se ne resta a pencolare come la corda usurata dello scorsoio da una forca.

Da cosa è ispirato nei Suoi libri?
Dalle storie che, innanzitutto, catturano me. Ho cercato di trasferire nei romanzi e nei saggi ciò che per tramite del giornalismo non può trovare spazio. È il modo più efficace per aggirare la censura. Non vorrei sembrare un esaltato ma la censura esiste: in politica estera, per esempio. Per non dire nella trasmissione della memoria e del patrimonio culturale. Già spiegare Ares in luogo di Marte può creare più di un problema nella nostra società cosiddetta liberale. Per non dire di tutti i temi che mi muoiono adesso in bocca… È l’autocensura. 

Che cos’e’ il vino?
Prima di tutto è il mosto. Un sapore irresistibile che mi riporta all’infanzia. Dopo di che è un rimando perfino metafisico. La mia formazione culturale è musulmana e col vino ho un rapporto obbligatoriamente mediato dalla mistica persiana. È solo un suggerimento dell’Ulteriore.  

Che significato ha il vino nella cultura dell’Islam?
Rispondo con una scena. Quella che capita quando, in situazioni conviviali, alzando il bicchiere, il musulmano solleva la mano in segno di saluto (e di cortesia verso gli ospiti non islamici) e dice: “Berremo in Paradiso”.

Perché la bevanda cara a Bacco è un elemento comune di alcune religioni?
Perché ubriaca, ovvio.

Cosa s’intende per sacralità del vino?
La complessità che ne deriva dalla preparazione, dalla custodia e - non certo per ultimo - dall’assunzione. Il vino che si produce oggi non è quello di Polifemo, l’ebbrezza ha assecondato la riproducibilità tecnica dell’ebbrezza. Per tramite di chimica più che di crisma. La sacralità, tecnicamente, è solo un tic consolatorio.

Abbinamento tra un cibo ed un vino siciliano
Granita di gelsi neri e sorsi di Ibn Hamdis. Nel canzoniere di questo grande poeta siciliano si trovano tutti i più bei versi dedicati al vino, perfetti per accompagnare la degustazione profumata e refrigerante.

Una citazione sul vino
Un vero uomo non s’innamora e non s’ubriaca.

 

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