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Lambrusco, colloqui privati
Pubblicato il 16/05/2014
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Fino a non molti anni fa, a dire il vero anche oggi anche se in misura sempre minore, molti cultori del vino (o sedicenti tali) alla parola Lambrusco storcevano il naso tradendo una evidente posizione preconcetta: il Lambrusco come vino era un tabù, una “bibita” spacciata per vino. Come ebbi modo di scrivere su questa testata qualche tempo fa (numero 100), non esistono vitigni che danno, ipso facto, uve che garantiscano un vino eccezionale, tantomeno vitigni che altrettanto automaticamente diano vino scadente; è oramai assodato che al di là delle uve, una componente significativa della qualità di un vino risiede a monte e a valle della vendemmia. La qualità dell’uva è il precipitato della qualità del lavoro che è stato fatto in campagna ed ancor prima, della scelta dei terreni su cui impiantare quel vigneto. La moderna ampelografia consente di identificare partendo dalle caratteristiche del terreno, della zona, dell’esposizione solare, delle caratteristiche morfologiche e climatiche dell’appezzamento, il vitigno (rectius il clone) che lì può esprimersi al meglio. La moderna concezione (allargata) di terroir non è confinata alle sole caratteristiche del terreno ma abbraccia anche la cultura e la sensibilità di chi coltiva, giocando questa un ruolo strategico, se non comprimario, per la produzione d’eccellenza. Partendo quindi da una buona qualità della materia prima dobbiamo quindi concentrarci sul lavoro da fare in cantina. Maurizio Zanella, produttore illuminato di una delle più importanti realtà dell’eccellenza vitivinicola italiana, una volta disse che il 70% della qualità di un vino dipende dal lavoro di cantina, a partire dal lavaggio delle uve(pioniere in questa tecnica proprio Ca’ del Bosco) fino alla fermentazione dei mosti e controllo della temperatura, affinamento in bottiglia, passando dalla spremitura dei grappoli all’assemblaggio delle cuvée.

La qualità media dei vini italiani sta aumentando sempre di più ed i riconoscimenti ottenuti sia in patria che all’estero è noto a tutti. Ciò evidentemente non è dovuto né al caso, né all’aria buona bensì alla crescente e diffusa consapevolezza che è la qualità che paga, non (più) la quantità. La sensibilità dimostrata da alcuni produttori nel credere che la qualità dei propri vini potesse essere verticalmente migliorata mediante un nuovo approccio alla coltivazione delle viti e al lavoro in cantina, ha gettato le basi per una progressiva, anche se lenta, diffusione della cultura del buon vino anche attraverso la riscoperta di vitigni autoctoni quasi dimenticati ma fondamentali per tracciare e conoscere la storia vitivinicola del Paese. Il costante miglioramento delle tecniche agronomiche e di cantina consente oramai ad ogni vitigno di esprimere, nel luogo ad esso vocato, la propria tipicità che altro non è che la manifestazione dell’ anima. Il concetto di tipicità è necessariamente un’idea profondamente dinamica che va intesa e correttamente collocata nell’ambito spaziale e temporale di riferimento. Giovanni Manetti di Fontodi a proposito del “suo” Vigna del Sorbo ebbe a dire che il consorzio Chianti Classico in certe annate tendeva a non ritenerlo “tipico” in quanto troppo si discostava dalla tradizione del Chianti. Il Consorzio in verità aveva rilevato, senza accorgersene, non che il Sangiovese di Vigna del Sorbo era scadente bensì che aveva fissato un nuovo traguardo verso la sempre migliore espressione delle sue potenzialità. Forse ciò era da attribuire ad un complesso di fattori, alcuni dei quali potenzialmente non riproducibili, ma ad un attenta degustazione delle annate non si può non cogliere che questo vino fisserà nuovi standard di tipicità.

Quanto fin qui detto vale anche per il Lambrusco. Certe convinzioni che ancora oggi si avvertono in vari contesti circa le potenzialità di questo vitigno sono a mio parere da rivedere. L’errore che molte volte si commette è quello di prendere il proprio vino preferito come parametro di riferimento a cui rapportare gli altri, mentre il moderno cultore del vino deve porsi di fronte al bicchiere avendo come unici strumenti di indagine la propria sensibilità e personale esperienza, senza preconcetti o convinzioni precostituite. Il Lambrusco nelle varie declinazioni delle Doc Sorbara, Santa Croce o Castelvetro esprime con immediatezza la dinamicità del suo territorio, costituito da un fazzoletto di pianura padana, culla di cultura, tradizione, genio e iniziativa. La provincia di Modena brulica di nuovi e consolidati produttori che mirano a risultati di eccellenza, produttori con la visione di migliorare costantemente un prodotto straordinariamente tipico della zona, un ambasciatore della territorialità al pari dei più blasonati marchi automobilistici o dei celebri prodotti gastronomici espressione delle tradizioni e della cultura enogastronomica locale. Tradizione tuttavia non significa rifiuto della sperimentazione, anzi la cultura dei valori tradizionali è il substrato più fertile per uno sviluppo consapevole e duraturo. Le Cantina Sociale di Settecani, situata tra Modena e Castelvetro, rappresenta questo nuovo trend diffuso ormai tra molti produttori del comparto modenese. Nonostante la lunga presenza sul territorio (101 anni di tradizione!) investe sulla vocazione territoriale, sulla tipicità e sulla qualità globale arricchendo la propria produzione con vini provenienti da uve tipiche del territorio tra cui, oltre al Lambrusco, il Pignoletto, il Trebbiano dell’Emilia ed il Sangiovese di Romagna. Top di gamma per questa storica cantina è un vino Lambrusco realizzato con uve raccolte e selezionate a mano nei vigneti sulle attigue colline di Castelvetro, il Lambrusco Grasparossa di Castelvetro Doc “Divino”. Dopo una spremitura soffice, il mosto è lasciato a macerare per quattro giorni sulle bucce a temperatura di 10-12°C per consentire una ottimale estrazione del colore e lo sviluppo e conservazione dei profumi a cui segue la fermentazione in acciaio a temperatura controllata. Il colore è rosso rubino intenso e compatto arricchito da riflessi violacei presenti anche nella tipica spuma che delicatamente rivela la forte presenza antocianina e sprigiona nel bicchiere una ricchezza olfattiva immediatamente percepibile. I sentori sono di frutti di bosco, ribes e mora selvatica accompagnato da ricordi di viola e ciliegia matura. Al gusto presenta una buona freschezza e tannicità accompagnata da un ritorno fruttato in perfetta armonia con le sensazioni olfattive. La tipica effervescenza completa un quadro sensoriale di perfetta abbinabilità con i piatti tipici della cucina emiliana caratterizzata da ricchezza e sapore come lo gnocco con i salumi e il lardo saporito, le paste a base di ragù di carne, bolliti ed arrosti di media struttura. La vocazione del Lambrusco ed in particolare della selezione “Divino” ad abbinarsi ai piatti della tradizione emiliana, che si è evoluta e plasmata sul “suo” vino in un connubio di reciproca esaltazione, era ben nota anche a Giosuè Carducci che ebbe a dire che “Domineddio fece apposta il Lambrusco per innaffiare dell’animale caro a Sant’Antonio abate. E io, per glorificare Dio e benedire la sua provvidenza, mi fermai a Modena a lungo a meditarne la sapienza”. 

Cantina Settecani
Via Modena,184 
41014 Settecani Castelvetro di Modena (MO)
Tel. 059 702505
www.cantinasettecani.it
info@cantinasettecani.it

 

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