Bibenda
Bibenda, per rendere più seducenti la cultura e l’immagine del vino.
Visualizza tutte le notizie
È buono ciò che piace o è buono ciò che è tipico
Pubblicato il 11/04/2014
Fotografia

La questione è a dire il vero piuttosto vecchiotta e merita qualche riflessione in più. Limitarsi ad esclamare “de gustibus non dispuntandum est” è decisamente un approccio da bar sport, per cui fissiamo un paio di concetti elementari ma di fondamentale importanza. L’Italia, forse più di ogni altro paese al mondo, è caratterizzato da una spiccata varietà territoriale, sia climatica che morfologica. A seconda delle dinamiche coinvolte nella formazione del territorio che oggi conosciamo (alluvioni, terremoti, eruzioni ecc.), l’Italia è diventata un caleidoscopio di zone uniche ed irripetibili ciascuna capace di imprimere un suo tratto distintivo ed inconfondibile (si pensi alle marne dell’Oltrepò Pavese, alle colline di Barolo, all’Etna, al terroir vulcanico dell’Irpinia, alle colline friulane e chiantigiane), tuttavia non solo la terra gioca questo ruolo importante, anche il clima, la luce, la salsedine del mare, la cultura del luogo che influenza dinamicamente le tradizioni giocano un ruolo di primissimo ordine, in definitiva ogni terroir imprime di sé il prodotto agricolo e tanto più questo è sensibile alle componenti del processo produttivo tanto più l’impronta sarà marcata e riconoscibile.

Ancora oggi capita spesso di ascoltare presunti “intenditori”andare a colpo sicuro chiedendo un Nebbiolo o un Pinot Nero anziché un Sauvignon: non è il vitigno che è garanzia di qualità, tantomeno la denominazione, bensì il terroir vocato a quel vitigno che imprime al vino quelle caratteristiche e sfumature uniche che emozionano il vero cultore del vino. Se io coltivassi le mie viti in un terreno ben drenato e curato secondo le buone pratiche agricole avendo cura di vendemmiare nel momento ottimale in cui sono tra loro in equilibrio la componente acida e zuccherina dell’acino, la maturazione polifenolica e terpenica otterrò un prodotto sideralmente diverso del mio vicino che ha un terreno tendenzialmente argilloso, poco drenato e per il quale il parametro della vendemmia è costituito solo dal grado zuccherino. I prodotti così ottenuti pur provenendo dalla medesima zona, dal medesimo territorio sono tra loro facilmente distinguibili, sono espressione di due terroir pur spazialmente contigui. L’aceto balsamico di Modena tradizionale non fa eccezioni, anzi amplifica le peculiarità con l’invecchiamento. Nel processo di maturazione dell’aceto balsamico, il legno delle botti svolge un’ azione generosa e irripetibile. Le botti, normalmente otto, che compongono la batteria sono tradizionalmente realizzate in legni diversi ciascuno dei quali è chiamato a contribuire alla caratterizzazione del prodotto mediante una progressiva cessione di componenti aromatiche e tannini assolutamente uniche. Per esempio, l’inserimento in batteria del ginepro, nelle ultime botti imprimerà al balsamico una nota resinosa e mentolata senz’altro più spiccata rispetto a un castagno o a un ciliegio. Tutto questo rientra nel concetto di tipicità perché oltre ad essere realizzato conformemente al disciplinare è rispondente alla tradizione peculiare del luogo ed è con questa identificabile e riconoscibile. Tuttavia, la tipicità non è un concetto immobile ma evolve con l’evolversi dei fattori che condizionano il prodotto. A volte si ritiene un aceto non tipico per il solo fatto che esprime note così peculiari da allontanarlo “dal conosciuto”: ciò evidenzia una sensibilità forse non sufficientemente affinata ed abituata a cogliere le infinite sfaccettature qualitative di unicità che un prodotto sublime e delicato come il balsamico può trasmettere. La semplice predominanza di alcuni riconoscimenti piuttosto di altri può distogliere l’attenzione del degustatore portandolo addirittura a definire il prodotto non rispondente ai canoni della tipicità, commettendo l’errore che poc’anzi si illustrava, quando invece esprime forse più di chiunque altro e con un grado di estrema lucidità e raffinatezza proprio quel territorio che il degustatore non sufficientemente consapevole ha faticato a riconoscere.

Analogamente, ma gli esempi potrebbero essere moltissimi, indicatore della tipicità del Nero d’Avola fino a qualche tempo fa era la cosiddetta “puzzetta” che a molti non piaceva ma che era ritenuta un tratto quasi irrinunciabile di questo vitigno. Oggi, l’affinamento delle tecniche in campagna ed in cantina, ne hanno messo in luce le potenzialità gusto olfattive e la progressiva scomparsa della “puzzetta”. La tipicità è quindi espressione di qualità, espressione del territorio, ma è anche un concetto elastico e suscettibile di evolversi a fianco del terroir e ciò è cosa bene distinta   dalla gradevolezza che è, e rimane, un concetto soggettivo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA