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Quel vitigno dagli occhi a mandorla
Pubblicato il 04/10/2013
Fotografia

Trovo che l’ampelografia sia tra le materie più affascinanti nell’ambito di quelle con cui ha a che fare un appassionato di vino. Rintracciare la storia dei vitigni, il loro percorso nei secoli e nei millenni dalle terre d’origine (per lo più nel Caucaso) alle sedi attuali significa occuparsi al contempo di storia, di antropologia, di geografia, di botanica ma soprattutto di cultura. Ricordo che ai corsi di Associazione Italiana Sommelier un docente fece una volta un’affermazione apparentemente paradossale: i vitigni autoctoni non esistono, perché ogni vitigno, salvo rare eccezioni, è nato in un luogo diverso da quello dove poi si è sviluppato ed ha avuto successo. Se questo è certamente vero, l’intelligente provocazione del docente non può essere presa alla lettera: le caratteristiche dei vitigni, nel corso dei secoli, sono mutate per adattarsi all’ambiente ove sono stati impiantati, e l’uomo, con la selezione massale e poi clonale, ha contribuito al loro ulteriore cambiamento. Ecco perché sono estremamente incuriosito di conoscere vitigni diversi da quelli del panorama enologico classico del continente europeo; purtroppo, gli altri continenti riservano in genere poche sorprese, in quanto “colonizzati” dalle varietà internazionali (o, al più, da vitigni classici italiani), vista la poca attitudine alla vinificazione delle varietà di uva diverse dalla vits vinifera.

Ogni regola, però ha le sue eccezioni; e tra queste, una delle più interessanti è un vitigno praticamente sconosciuto da noi, provenendo da un paese, il Giappone, noto per tutt’altre bevande alcoliche. Si tratta di un vitigno dal nome esotico, koshu, che appartiene alla specie vitis vinifera. È coltivato nel Paese del Sol Levante da oltre 1.000 anni, e deriva probabilmente da varietà caucasiche portate dai mercanti lungo il percorso della Via della Seta. Possiamo solo immaginare le “pene” che deve aver patito il povero vitigno nel corso dei secoli, pene che lo hanno portato ad adattarsi ad uno dei climi più ostili della fascia temperata per quanto riguarda la viticultura: estati torride ma con indice di piovosità altissimo, umidità costantemente sopra l’80%, scarse o nulle escursioni termiche. Solo nella Prefettura di Yamanashi, alle pendici del Fuji, il suolo vulcanico ed un clima leggermente più clemente hanno permesso a quest’uva di attecchire e di rivelare qualità adatte alla vinificazione. Il resto lo hanno fatto le nuove tecniche enologiche e l’entusiasmo maniacale dei Giapponesi per tutto ciò che è nuovo, specie nel campo del cibo e delle bevande.

L’uva koshu ha un bellissimo colore rosa, non dissimile da quello del pinot grigio ma ancora più acceso; curiosamente, tuttavia, il vino che ne deriva è chiarissimo, di un verdolino pallido quasi trasparente. Ha scarso tenore alcolico (intorno al 10% del volume), vista l’incapacità del vitigno di concentrare gli zuccheri, e sfoggia in genere un’acidità molto marcata. Nei miei tanti viaggi in Giappone ho assaggiato in più di un’occasione vini fatti con quest’uva. Esagererei certamente se dicessi che mi hanno fatto gridare al miracolo, ma li ho trovati ben più di una semplice curiosità. Il paragone più immediato è con un riesling molto meno aromatico e più giocato su semplici note fruttate di pesca e melone, con una acidità certamente notevole e con una sapidità gradevolissima. Lo scontato accoppiamento con il sushi ed il sashimi funziona certamente bene, ma un più coraggioso tentativo con la pizza ha dato, tutto sommato, ottimi risultati. Il koshu, dunque, è un vino che ricorderò con piacere; mentre cerco ancora di scordare, sempre del Giappone, l’assaggio di un ibrido locale il cui inquietante nome, “neo muscat”, avrebbe dovuto mettermi in guardia. Ma si sa: ad essere troppo curiosi a volte si rischia.

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