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Il fascino discreto dello Chenin
Pubblicato il 07/06/2013
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Se chiedessero a bruciapelo ad un appassionato di vini di indicare quale sia il bianco più longevo, immagino molti si pronuncerebbero per gli chardonnay della Borgogna, mentre altri opterebbero per i riesling della Mosella. Qualche fan del Rodano potrebbe pensare ai Marsanne della collina dell’Hermitage. Non a molti, tuttavia, verrebbe in mente di nominare gli Chenin della Loira.

Lo Chenin Blanc può essere a buon diritto considerato tra i vitigni più versatili del mondo. Si produce infatti in versione spumantizzata, secca, abboccata, dolce, botritizzata. Ed in ognuna di esse ha qualcosa da dire. È caratterizzato da una notevole acidità, seconda solo al riesling, e da una buccia sottile, il che spiega l’attitudine all’attacco della muffa nobile. I sentori, da giovane, sono fruttati (albicocca, pesca, agrume, mela verde) ma ben presto virano verso note minerali, non idrocarburiche come quelle tipiche del Riesling, ma piuttosto salmastre, fumé. Si avverte spesso una caratteristica nota che a me ricorda il biscotto digestive, delizioso connubio di dolce e salato che manda in solluchero gli Inglesi se accoppiato ad un formaggio erborinato.

Con l’invecchiamento, il vino si fa più complesso: le note minerali si scuriscono, si affacciano, controllati, sentori ossidativi, ed emerge una componente di mela cotogna che, almeno per la mia esperienza, costituirà per tutta la vita del vino una cospicua eredità fruttata.

Già: quanto dura uno Chenin della Loira? Tanto, nel caso dei dolci tantissimo: anche un secolo. Persino i vini secchi (che conservano tuttavia quasi sempre un residuo zuccherino, come i kabinett tedeschi) sono di grande longevità. Ho recentemente assaggiato un Vouvray sec 1991 di Marc Bredif, ed era semplicemente perfetto (così come le era l’abbinamento su storione bollito con salsa al dragoncello): ancora percepibile una lieve nota zuccherina, si snodava su sensazioni di canna di fucile, cotognata, persino porridge, con una sorprendente vena di vivacissima freschezza che contrastava in maniera superba la grassezza del pesce.

Qualche parola sui domaines e sui prezzi: tra i produttori di riferimento, citerei Huet (AOC Vouvray), Clos Rougeard (AOC Saumur) Nicolas Joly (AOC Savennèries Coulée de Serrant). Quest’ultimo, tra i fondatori della biodinamica applicata alla viticultura, produce in monopolio un vino che si chiama, appunto, Coulée de Serrant, secco ma con utilizzo di uve in parte botririzzate, giocato sull’ossidazione, controverso: ci sono coloro (tra cui chi scrive) che lo adorano, altri che storcono il naso per la sua “originalità”. In Francia va sui 50-60 euro. È comunque un vino che fa discutere.

Huet è tra i produttori più versatili, che da tre distinti crus (Le Mont, Le Haut Lieu, Clos du Bourg) produce vini secchi, demi sec, e tre tipi di vini dolci (Moelleux, 1er trie, Cuvée Constance). I secchi, splendidi, sono un vero affare (10-12 euro), mentre la sontuosa Cuvée Constance viaggia oltre gli 80 euro per mezza bottiglia. Infine, il Clos Rougeard (su cui ricordo un bellissimo articolo di Giovanni Ascione su Bibenda n. 36), dei baffuti fratelli Foucault, produce un solo bianco, il Bréze, richiestissimo anche per la limitata produzione. Oltralpe, se si cerca bene, si trova intorno ai 60-70 euro.

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