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C come cassata
Pubblicato il 13/12/2013
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Forse per la sontuosità barocca che sa d’Oriente, forse per gli arabeschi descritti dai nastri di zuccata o per l’esotismo di ingredienti come zucchero di canna, agrumi e mandorle, la Cassata, caposaldo assoluto della gastronomia siciliana, è ritenuta dai più invenzione di cuochi arabi al servizio dell’emiro residente alla Khalsa intorno all’anno mille. La maggior parte dei testi fa infatti risalire l’etimologia alla parola araba Qas’at, ovvero ciotola rotonda o casseruola, pronunciata da un cuciniere musulmano che, mentre lavorava zucchero e ricotta, avrebbe frainteso la domanda, designando con la sua risposta il recipiente anziché il contenuto. Vero è che, ancora oggi, si utilizza per la preparazione un recipiente particolare, una sorta di teglia in metallo con bordo a svasare, atto a trattenere il rivestimento preliminare di  pandispagna, più o meno alternato a marzapane. Tuttavia, ad un’analisi approfondita, la romanzata ipotesi dell’invenzione araba appare alquanto improbabile, se comparata a un’altra ipotesi legata piuttosto alla “caseata” di ancestrale origine italica, a base, come indica il nome, di caseus, ovvero formaggio fresco setacciato, lavorato e addolcito. In tal modo, la Cassata prima maniera sarebbe imparentata con preparazioni balcaniche come la Tiropita, simile nell’aspetto a quanto si legge nel Declarus, primo dizionario siculo-latino (1350) dell’abate Angelo Senisio, che definisce la Cassata “cibus ex pasta panis et caseus compositus”, ovverosia un semplice involucro di pasta di pane ripieno di ricotta lavorata con miele, da mandare al forno. Così sarà per secoli. Ne dà conferma il vocabolario etimologico di Michele Pasqualino (1785), descrivendo la Cassata come “una specie di torta di ricotta, raddolcita da zucchero, con rinvolto di pasta anch’essa raddolcita, fatta a forma rotonda…”. Dolce rituale ab antiquo, e perciò spesso preparato dalle monache nei conventi di clausura, in ottemperanza a una nota del Sinodo episcopale di Mazara del Vallo, che nel 1575 definisce la Cassata “indispensabile nelle feste pasquali”. E proprio nel convento della Martorana, a Palermo, secondo tradizione nasce la morbida pasta reale di mandorle e zucchero, che poco alla volta prende il posto della farina di frumento. La sostanziale innovazione non solo conferisce alla moderna Cassata sapore e sontuosità incomparabili, ma consente la lavorazione a freddo, senza forno, atta a preservare tutta la freschezza e la cremosità del ripieno. Colla dominazione spagnola, poi, la Cassata si arricchisce di altri ingredienti come pandispagna e cioccolato, fondamentali per la metamorfosi moderna del più tipico tra i dolci siciliani, che può dirsi completa solo nel 1873, quando, in occasione di una fiera a Vienna, il Cavaliere del lavoro Salvatore Gulì, rinomato pasticcere palermitano con laboratorio in corso Vittorio Emanuele, realizza una Cassata multicolore di grande effetto, con la zucca candita o “cucuzzata” a dare il tocco da maestro. Non esistono due cassate decorate allo stesso modo, così come, d’altra parte, non esiste una ricetta univoca: c’è chi riduce sobriamente al minimo il verde della glassa e chi invece ne accentua la barocca policromia con canditi di ogni tipo, perline argentate, merlettature e decorazioni varie, chi aggiunge pistacchi e pinoli o scaglie di cioccolato di Modica, chi preferisce il profumo di acqua di zagara o di cannella alla vaniglia e chi sostituisce il maraschino al Marsala. Alla Cassata eminentemente palermitana, Catania risponde con le Minnuzze di Sant’Agata, in pezzatura monoporzione decorata da un’unica ciliegina, basate però sui medesimi ingredienti. “Tintu è cu nun mancia a Cassata a matina ri Pasqua”, “Meschino è chi non mangia Cassata la mattina di Pasqua”, recita un adagio popolare. Prodotta oramai tutto l’anno, la Cassata è proposta anche in versione estiva, simile a uno zuccotto con pandispagna, gelato di crema e panna, tempestato di frutta candita, pistacchi e cioccolato a scaglie, detto per la forma a cupola “Bbumma” (bomba) o “Cassarulata”. Più o meno freddo, si adatta bene il Moscato di Noto “della Torre”, sapido, fresco e con lunga persistenza aromatica di miele e arance candite, prodotto dall’azienda biodinamica  Marabino in appena 5.000 bottiglie.

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