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Piwi chi?
Pubblicato il 06/05/2016
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Piwi wines: i vini del futuro? Con questa provocazione si è aperto sabato 30 aprile all'Hotel Bellaria di Bologna, il seminario/degustazione condotto da Werner Morandell della Lieselehof di Caldaro (pioniere della viticultura biologica in Alto Adige), nel corso del quale ha raccontato 25 anni di esperienza e studi sulle nuove varietà da ibridazione intraspecifica resistenti alle malattie come peronospora e oidio.

Piwi (si pronuncia Pivi) è l'abbreviazione del termine tedesco pilzwiederstandsfähig (resistenti contro le malattie fungine); un'associazione nata nel 2000 in Svizzera e diffusasi poi in Europa e nel mondo che ad oggi conta più di 350 membri provenienti da 10 paesi in Europa e Nord America. Un gruppo di lavoro transnazionale inteso come piattaforma di scambio, nella quale far confluire esperienze, conoscenze e idee, e dove ognuno può imparare dall’altro. In Italia è presente in Alto Adige e in Trentino e con qualche singolo produttore in Valcamonica. 

Oltre alla riduzione al minimo di fungicidi, si vuole anche trovare dei vitigni che ben si acclimatino ai vari territori; è il caso del più conosciuto di questa tipologia: il Solaris che resiste alle grandi altitudini e ai freddi di montagna. Un vitigno molto precoce che matura in media circa tre settimane prima dello Chardonnay e che trova il suo habitat ideale tra i 600 e i 1000 metri ma arriva anche ai 1300. 

I primi vitigni ibridi furono creati nel XIX secolo nel tentativo di fermare il flagello della fillossera; fu un’operazione tampone per cercare di salvare il salvabile. Ibridi incrociati in malo modo con pessimi risultati: vini privi di tannini, poca qualità, a volte sgradevolezza nel gusto e spesso incapaci di resistere alla fillossera. Nel corso degli ultimi anni però sono state messe in produzione sempre più varietà Piwi e ad oggi in Italia sono 15 i vitigni ammessi ed autorizzati. 

La procedura per ottenere un vitigno ibrido è lunga e complessa. Dall'impollinazione dei fiori femminili con il polline delle varietà selezionate (viti europee, asiatiche ed americane), per ottenere dei semi che produrranno piante che saranno poi messe a dimora in luoghi insalubri e bombardate da parassiti e funghi.


Dai frutti delle piante che saranno riuscite a sopravvivere verrà prodotto del vino che l'Università di Friburgo esaminerà e se approvato, dalla vigna madre verranno ricavate circa una trentina di piante che, solo dopo una trentina di anni di osservazione, verranno vendute ai vignaioli.

Ma quali scenari potremmo immaginare per questi vini?

L’Italia vanta un patrimonio viticolo immenso e fortemente radicato nella tradizione, difficile quindi immaginarne una diffusione massiva. D'altro canto, per i vitigni tradizionali vengono spesi ogni anno circa 47 milioni di euro in prodotti chimici; spese qui evitabili ma anche un bottino che a nessuna multinazionale vorrebbe perdere. Molti intendono i vini Piwi come una sorta di binario parallelo per la viticoltura, specie in zone difficili, dove non è possibile o è molto difficile meccanizzare gli interventi nel vigneto o dove le condizioni climatiche sono estreme.

Bronner, Johanniter, Souvignier gris, Cabernet Cortis, Marechal Foch, Regen. Questi alcuni dei vitigni che stanno prendendo piede e che possono essere osservati da Lieselehof l'azienda di Caldaro dove Morandell ha dato vita ad un vero e proprio Museo della Vite, con oltre 300 varietà diverse, fruibile attraverso un percorso didattico dedicato, nato anche grazie ai continui scambi con l’Istituto di Freiburg, il Centro Sperimentale di Laimburg e la Fondazione Mach.

 

 

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