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B come batsuà
Pubblicato il 29/06/2012
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Tipica del cuneese (Langhe e Monferrato), ma anche del canavese, è pietanza di recupero a base di geretti suini. Il nome, scritto a volte batsoà, viene dal francese bas de soie, calze di seta, con allusione ai sottili lembi carnei dapprima sobbolliti per staccarli dall’osso e poi panati e fritti. Se nella cucina piemontese la carne bovina occupa un posto di assoluto rilievo (bue grasso di Carrù, salsiccia di vitello di Bra), è altrettanto vero che il maiale è coprotagonista nel grande fritto misto, e tale è sempre stata la sua importanza nell’economia rurale da ricavarne non solo salumi di pregio come prosciutto e cotechino, ma anche l’oriot che utilizza orecchie e muso, oppure il salame di testa ottenuto da lingua e guance, per non parlare delle frisse, le polpettine avvolte nella rete che mescolano ai ritagli intercostali polmone, cuore e fegato suino.

I batsuà si preparavano tradizionalmente da novembre a febbraio, quando nelle campagne si ammazzava il maiale, valorizzandone con specifiche preparazioni anche le parti anatomicamente meno nobili. Gli zampetti, spaccati nel senso della lunghezza, vanno lessati in acqua acidulata assieme a cipolla o porro, sedano, carota, alloro, chiodi di garofano e pepe  in grani finché la parte carnea non accenna a separarsi dall’osso; a tal punto, togliere il recipiente dal fuoco e lasciar raffreddare nel brodo di cottura. La polpa ricavata, simile ai “nervitt” della tradizione lombarda, va infarinata, legata con uovo sbattuto, impanata con pane grattugiato o grissini e fritta in abbondante olio ben caldo. Accompagnati dalle classiche salse del bujì (salsa verde, bagnèt verd e ross, cugnà) , i batsuà entrano nel fritto misto alla piemontese, ma si prestano altrettanto bene a essere serviti come antipasto. Canonico l’abbinamento con Barbera, che col suo corredo acido-tannico bilancia bene grassezza e succulenza a tendenza dolce della frittura.

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