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B come Babaçu
Pubblicato il 22/06/2012
Fotografia

Babassou per i francesi, da noi italianizzato in Babaco. Sembrava il frutto miracolo degli anni Ottanta, l’ideale per compensare la crisi degli agrumi: la specie (Carica Pentagona, così chiamata per l’abbondanza dei frutti  a sezione pentagonale) è originaria della foresta pluviale ai piedi delle Ande, sopporta bene temperature relativamente basse, e perciò se ne è introdotta la coltivazione dapprima in Nuova Zelanda e poi in Europa, in particolare nell’Italia meridionale che presenta condizioni edafiche molto favorevoli ai “Sudfrüchte”. Il frutto è simile a un peperone per dimensioni e colorazione giallo-verde, e la sua buccia, sottile e commestibile, racchiude una polpa acidulo-zuccherina senza semi, che ricorda vagamente l'ananas e la papaya (di fatto, è un ibrido naturale appartenente alla stessa famiglia). Ciascuna pianta porta 35-40 frutti, di peso variabile fra 800 grammi e due chili, lunghezza media sui 30 cm, con apice tondeggiante appuntito e sezione pentagonale. Il babaco si conserva molto bene e a lungo in frigo, ed è benefico per l’alto contenuto in fibra e in vitamina C antiossidante, a fronte di un bassissimo contenuto calorico, solo 21 kcal per 100 gr di prodotto. I contadini delle Puglie, della Campania e del basso Lazio si stupivano dall’estrema vigoria della pianta, alta fino a 3 metri dopo appena un anno dalla messa a dimora, con apparato radicale e fogliare di notevoli dimensioni, fioritura continua in estate e raccolta dei primi frutti in autunno. Ma consumatori e mercati ortofrutticoli rimanevano diffidenti, e faceva un curioso effetto vedere, ai margini delle statali, questi giganteschi frutti di origine ecuadoriana esposti sulle carriole, assieme alle fragole in offerta. La disillusione ha poi portato molti a espiantare. Ora di Babaco si parla di nuovo, ma non è lo stesso frutto, bensì la noce di una palma brasiliana (Orbynia speciosa) che porta lo stesso nome, conosciuta come « pianta della vita» per l’olio che se ne estrae, ma anche per le fibre, usate per le coperture delle case e per confezionare oggetti intrecciati, per le foglie che servono da concime e, naturalmente, per i frutti commestibili, a sezione pentagonale come il frutto affine di cui sopra. Per il povero stato di Maranhao, il Babaçu è risorsa economica vitale, un po’ come lo era il castagno per le nostre comunità montane fino al dopoguerra. Perpetuando un’antica tradizione, sono le donne a occuparsi della raccolta, e le quebradeiras (“rompitrici”) de Babaçu hanno vissuto in tal modo per generazioni, con le briciole lasciate loro dal grossista (poco meno di 4 dollari al giorno). Purtroppo, l’avvento del biodiesel rischia ora di inasprire insopportabilmente una politica governativa che fino ad anni recenti ha ridotto ai minimi termini le terre libere, privatizzandole o sacrificandole alla rete autostradale trans-amazzonica, fin quando, nel 1997, una legge di stato, detta “del  Babaçu livre”, viene emanata per garantirne la raccolta anche all'interno delle proprietà private, sanzionando l’abbattimento delle piante da parte dei proprietari terrieri. In realtà si è ben lontani dall’aver risolto un contenzioso che ha fisionomia e dimensioni di vero e proprio conflitto sociale, ma almeno sulla carta è riconosciuto il diritto alla sopravvivenza a circa 300.000 famiglie che di Babaçu vivono da generazioni.

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