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D come Darjeeling
Pubblicato il 29/05/2015
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“Without Darjeeling, Tea would be like Wine without the prestige of Champagne”: “senza Darjeeling, il tè sarebbe come il vino senza il prestigio dello Champagne”, così recita lo slogan dell’India Tea Board, ente di stato finalizzato alla valorizzazione e alla tutela del tè di produzione nazionale. Darjeeling, capoluogo della regione omonima, è una pittoresca città di montagna sui primi contrafforti dell’Himalaya, nel Bengala occidentale. Il nome deriva dal tibetano dorje-ling, che significa “città della folgore”. La città, tutta in ripido pendio, si sviluppa a partire da un’altitudine di oltre duemila metri, circondata da frazioni-villaggio che arrivano fino a quota tremila, immerse in un paesaggio di incantevole bellezza. A far da fondale, l’alta cima del Kanchenjunga con le sue nevi perenni, e tutt’intorno, a tappezzare letteralmente ogni collina, lussureggianti cespugli di Camelia Sinensis, l’albero del tè, che si estendono in vertiginosa pendenza fino alla sottostante pianura di Siliguri. Per la vigna si parlerebbe di colture eroiche: le piantagioni sono tutte estremamente curate, spesso distribuite su ordinati terrazzamenti, potate a un’altezza di due piedi (poco più di sessanta cm), tradizionalmente adottata per agevolare lavorazioni e raccolta, mentre la pianta non potata può arrivare a due metri di altezza e oltre. Il lavoro è certosino: ogni cespuglio produce annualmente poco meno di un etto di tè finito. Fin dai tempi della dominazione britannica, Darjeeling è sinonimo di tè nero di gran pregio, introdotto sperimentalmente intorno al 1840 e per gli eccezionali risultati divenuto coltura dominante, in grado di rivoluzionare completamente l’economia di quello che un tempo era un modesto villaggio di montagna. Il primo impulso all’introduzione della pianta cinese del tè (Sinensis vuol dire appunto “della Cina”) si deve alla leggendaria Compagnia delle Indie Orientali, che operava tra i due paesi attraverso gli scali commerciali di Singapore e Hong Kong, anche se solo in epoca vittoriana l’India sviluppa vaste piantagioni che le permettono di rivaleggiare con la stessa Cina. Ai fratelli scozzesi Robert e Charles Alexander Bruce si devono le prime coltivazioni sperimentali, poi perfezionate da Robert Fortune, che accanto alla Camelia Sinensis introduce la Camelia Assamica, più resistente e migliorativa dal punto di vista del colore e dell’aroma, cultivar locale scoperta allo stato spontaneo nell’umida giungla dell’Assam, regione pianeggiante a est di Darjeeling. L’India diviene indipendente nel 1947. Il Regno Unito rimane l’importatore di riferimento, accanto all’Unione Sovietica, ma i prezzi pagati tendono al ribasso, trascinando con sé gli standard qualitativi. La quantità vince sulla qualità, forzando la produttività delle piantagioni ai massimi storici, con l’ausilio di fertilizzanti e pesticidi chimici. La situazione peggiora ulteriormente con la disgregazione sovietica degli anni Novanta e con l’ingresso sul mercato del tè di nuovi competitor, come Sri Lanka e Kenya. La riscossa arriva con la svolta del millennio, quando gruppi di imprenditori locali si associano e rilevano molte piantagioni malate e in stato di abbandono, proponendo un marchio unico volto a limitare l’uso ingannevole e fraudolento del nome. Dopo un’assidua campagna di sensibilizzazione e informazione, Darjeeling ha finalmente conseguito nell’ottobre 2011 il riconoscimento UE del marchio di tutela Igp. Le piantagioni a regime bio sono ormai una quarantina, la metà del totale. Ciononostante, la contraffazione resta un serio problema : a fronte di una produzione effettiva di 8-10.000 tonnellate, il Darjeeling venduto nel mondo ed etichettato come tale è di 40.000 tonnellate, ossia un quantitativo quattro volte superiore. Inutile dire che il più delle volte si tratta di generici blend, quando non addirittura di menzione totalmente ingannevole, lucrativa in maniera fraudolenta sulla notorietà del nome.

Il Tea Board of India ha perciò imposto regole ben precise: presenza tassativa del logo, piantagioni fra i 300 e i 2.500 metri di altitudine, una novantina di “estates”, o “giardini” riconosciuti, l’equivalente di un cru vinicolo, dai nomi evocativi già cult tra gli appassionati, come Castleton, Margaret’s Hope, Risheehat, Tukvar, Balasun, Phuguri, Selimbong e altri. Il mix di più giardini viene invece etichettato come blend, ed è da considerarsi di qualità inferiore. Un’ulteriore distinzione, riportata in etichetta, riguarda l’epoca di raccolta. Il First Flush, dalle foglie verde tenero, viene raccolto al termine della stagione invernale, mentre il Second Flush (epoca di raccolta, maggio-giugno) si riconosce dal colore rosso-bruno e dal sottile aroma fruttato di moscatello. Il raccolto autunnale, infine, la cui epoca si colloca tra ottobre e novembre, non è disprezzabile, ma più blando in gusto e carattere. Il First Flush, primo raccolto primaverile, è un evento molto atteso: la pianta a riposo tutto l’inverno, fornisce una gran quantità di profumati germogli, detti “golden tips”. Il colore della foglia secca si mantiene molto verdeggiante, virando al massimo al kaki. La lavorazione classica del Darjeeling è essenzialmente in nero (tè fermentato), anche se, in linea teorica, ogni “giardino” può ugualmente fornire tè verdi (detti Darjeeling Arya) e semifermentati. La selezione clonale ha reso disponibili nuovi cloni, portatori di gemme voluminose e fragranti, come il T 78 (Tukdah 78) e l’AV 2. Il Darjeeling si distingue comunque per eleganza, texture e persistenza, con astringenza percettibile, ma mai sopra le righe, a patto di contenere il tempo di infusione fra i tre e i quattro minuti. Note caratteristiche di un Darjeeling First Flush sono il liquore ambrato, delicata e omogenea astringenza, acidità e amaro contenuti, aromi complessi di rosa e frutta esotica, accenti mentolati, nota mandorlata persistente. Ai cinefili consigliamo di sorseggiarlo durante la visione del “Treno per Darjeeling”, gioiellino low-cost ricco di star hollywoodiane, ispirato al pittoresco “toy train” che da New Jalpaiguri si arrampica sull’Himalaya, coprendo una distanza di ottanta chilometri in cinque-sei ore, frane e monsoni permettendo.

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