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C come coppa
Pubblicato il 14/11/2014
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Regione che vai, Coppa che trovi. Con l’avvertenza che dalla Toscana in giù la pregiata Coppa padana si chiama Capocollo, mentre il termine Coppa è attribuito a un sottoprodotto che nella scala dei salumi si situa al gradino più basso. Coppa, tra piacentino e parmense, sta infatti a indicare il salume tipicamente marezzato, di peso variabile fra i 2,5 e i 4 chili ricavato dalla collottola del maiale, mentre in area umbro-laziale e nell’intero territorio di Marche e Abruzzo la Coppa è per antonomasia la cosiddetta Coppa di testa, e cioè un salume cotto con aromi e spezie, formato da rifilature e parti di spolpo, che acquistano coesione in cassetta o in tela di sacco legata stretta. Il salume nobile ricavato dai muscoli cervicali del suino, fra l’attaccatura della testa e la quinta-sesta costola del carré, si chiama invece in più modi, ingenerando a volte una certa confusione: Capocollo o Capicollo, Lonza (nel Lazio), Finocchiata (nel Senese). Variano non poco anche gli ingredienti aggiunti e le modalità di lavorazione, soprattutto nella tipologia artigianale. In Umbria, ad esempio, si usa una concia a base di pepe, aglio, coriandolo e semi di finocchio, e la stagionatura, particolarmente lunga,  può protrarsi fino a un anno. In Basilicata e in Calabria si adottano invece stagionature più brevi, magari dopo una lieve affumicatura, ed è caratteristico l’impiego di peperoncino tritato. In Puglia, dopo due settimane di salagione e aromatizzazione a secco, è caratteristica la marinatura nel Vincotto, oltre alla lenta stagionatura naturale in locali sotterranei freschi e a temperatura costante. Fra le varie tipologie, la Coppa Piacentina (Dop dal 1996) è riconoscibile a prima vista per la “fioritura” di muffe esterna, dovuta alla lenta stagionatura in ambienti naturali; al taglio risulta rosata e morbida, marezzata di bianco rosato, con profumo dolce e caratteristico. Nel piacentino, del resto, la domesticazione suina ha radici plurimillenarie, come risulta dai siti archeologici terramaricoli di Montata dell’Orto (Caorso) e di Castelnuovo Fogliani (Alseno), mentre l’Abbazia di San Colombano a Bobbio custodisce un mosaico del XII sec. che illustra il sacro rito della macellazione del maiale. In una “Monografia di Bobbio” del 1859 l’autore Daniele Bertacchi scrive: “In questo circondario la carne di maiale è molto più gustosa che altrove, e sono assi pregiati in ispecie i salami e la così detta Coppa Di Bobbio, che si mandano a regalare in lontani paesi”. Analoga raffigurazione di macellazione si ritrova a Piacenza nella cripta della Chiesa di San Savino. Corrado Barberis, nel suo Atlante dei Salumi, ricorda che la Coppa Piacentina era detta un tempo Bondiola, e che era costume dei proprietari mettere in palio fette della medesima tra i braccianti per incentivarli al lavoro.

Tra i diversi produttori validi, citiamo la Macelleria Maini, di Pianello Val Tidone, che dispone di un’antica cantina in sasso e mattoni per la stagionatura. Nel Mezzogiorno d’Italia la cultura del maiale, seppure ampiamente diffusa a livello familiare, non è praticata su vasta scala come in area padana, e tuttavia godono ampia fama due comprensori: la Lucania (culla della lucanica-luganega già celebrata dagli autori latini) e l'altipiano murgese  intorno a Martina Franca. Sita a 450 metri di altezza, a mezza strada fra il mar Adriatico e lo Jonio, la cittadina dei trulli gode di clima ventilato tutto l'anno, con inverni secchi e freddi, occasionalmente nevosi. Il suo territorio, ricco di querceti e di profumata macchia mediterranea, offre condizioni ideali per l'allevamento semibrado di razze suine locali, nutrite a ghiande di Leccio, Rovella e Fragno, quercia originaria dei Balcani, trasmigrata in Puglia nel Miocene, durante la regressione del Mare Adriatico, concentrata soprattutto nel Bosco delle Pianelle presso Martina Franca, riserva naturale di 600 ettari. Oggi come un tempo, il Capocollo di Martina Franca Dop si continua a produrre nella stessa area, e i norcini martinesi hanno fama in tutto il mondo. Documenti risalenti al Settecento comprovano l’antica fama del Capocollo di Martina Franca, strettamente legato al territorio di origine sia per la lavorazione esclusivamente artigianale, sia per particolari fattori di pregio altrove irripetibili, come l’uso del Vincotto, l’affumicatura con corteccia di Fragno o la stagionatura a temperatura costante all’interno di un trullo.

Suo cugino stretto è il Capocollo di Calabria, anch’esso insignito della Dop, ma finora penalizzato dall’incapacità di compiere il balzo decisivo dall’autoconsumo familiare ai più dinamici circuiti commerciali. Colpa anche di un disciplinare troppo permissivo, che consente, accanto ai tradizionali sale, pepe nero, pepe rosso piccante o dolce e aceto di vino della lavorazione artigiana, una non indifferente quantità di additivi industriali come caseinati, acido ascorbico, lattato di sodio, nitrati e nitriti di sodio e potassio. Una volta aperti, Coppa Piacentina e Capocolli di Martina Franca e Calabria si conservano in frigo avvolti in un canovaccio pulitissimo, avendo cura di estrarre il tutto una buona mezz’ora prima di procedere a nuovo taglio. Nel caso in cui la Coppa sia molto stagionata, è accorgimento utile fasciarla con un canovaccio intriso di vino bianco, in modo da agevolarne la pelatura. Tutt’altra cosa è la Coppa di testa, salume di umilissima estrazione, ma non per questo meno gustoso, nato dall’esigenza di sfruttare anche i cascami del suino, residuo di altre lavorazioni. In un calderone con acqua leggermente salata e alcune foglie di alloro viene lessata a fuoco lento (il tempo è di circa 4 ore) la testa del maiale ben pulita e privata sia di cartilagini che di parti molli, come cervello e occhi, comprendendo invece cotenne, lingua, parti muscolari e grasso delle guance. Con un coltello appuntito si spolpa velocemente a caldo, addizionando di sale, pepe e noce moscata, insaccando in vescica di bovino e lasciando riposare  brevemente prima del consumo. Ha una certa rinomanza la Coppa del viterbese, con o senza accompagnamento della tradizionale salsa verde, a base di prezzemolo, acciughe sott'olio, capperi, olio d'oliva, uova sode, pepe e limone, che risulta piuttosto magra in quanto, al termine della lavorazione, il composto è mantenuto al fresco sotto peso, allo scopo di lasciar spurgare grasso e gelatina in eccesso, insaporendo infine con ingredienti vari, quali buccia d’arancia e limone, pistacchi, pinoli e spezie varie. La forma, conseguente all’incassettatura, è a parallelepipedo o cilindrica, la fetta grigio-rosato, marmorizzata di zone più o meno pigmentate, risulta all’assaggio molto saporita e gradevolmente speziata. Normalmente d grossa pezzatura, da 5 a 10 kg, la Coppa viterbese si distingue dalle sue consimili di Toscana (Casentino in particolare), Umbria (Norcia) e Marche (zona di Fabriano). Anche per questo prodotto vi sono diversi sinonimi: Soprassata in Toscana, Capaccia o Capofreddo altrove. Per la Coppa viterbese da allevamento proprio il miglior indirizzo è il punto vendita dei fratelli Stefanoni, Via Cassia nord 60, Viterbo.

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