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C come cocco
Pubblicato il 07/11/2014
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“Esta fruta está…llena de una agua clarísima y excelente, la cual agua bebida es la más sustancial, la más excelente y la más preciosa cosa que se puede pensar ni beber, y en el momento parece que así como es pasada del paladar... ninguna cosa ni parte queda en el hombre que deje de sentir consolación y maravilloso contentamiento...” (Gonzalo Fernández de Oviedo, Sumario de la natural historia de las Indias 1526).

In spagnolo moderno, il termine “coco” entra in diverse espressioni idiomatiche: “Ser un coco” (essere un mostro), “hacer cocos” (fare moine)”un golpe en el coco” (battere una zuccata). Ma secondo il linguista Fernando Diaz Losada, l’associazione col frutto esotico è da ricercare in antiche superstizioni popolari. “Duérmete niño, duérmete ya, que viene el Coco y te comerá” recita un’antica filastrocca, ove il Coco mangiabambini è da intendersi equivalente al Babau o all’Uomo nero. L’esotica noce antropomorfa, simile a un cranio rinsecchito con occhi e bocca anneriti, suscitò a prima vista paure ancestrali fra i marinai portoghesi di Vasco de Gama, e nonostante cronisti come il capitano Fernàndez de Oviedo citato in apertura, a tal punto entusiasta del frutto da dedicare ad esso un intero capitolo del suo enciclopedico trattato, il nome da tregenda “coco” rimase affibbiato sia al frutto (più propriamente una drupa), sia al cocotero o palma da Cocco che lo produce, dai botanici classificato come Cocos nucifera. Si tratta di un albero spettacolare, capace di vivere fino a 80-100 anni, caratterizzato da uno stipite, o falso tronco privo di rami laterali, alto da 20 a 30 metri, con foglie verde brillante lunghe fino a sei metri. Si distinguono comunque due sottogruppi, palme grandi (a loro volta classificate per area geografica, ad esempio Grande delle Indie o Grande di Giamaica) e palme nane, le prime più longeve e produttive rispetto alle seconde. L’areale transcontinentale si estende senza soluzione di continuità dall’Asia all’Africa, dai Caraibi all’America Latina, fino alle isole del Pacifico. L’Europa è l’unico continente che ne è privo. Benché alcuni esemplari siano reperibili fino ai primi contrafforti himalayani, il clima ideale è quello marittimo caldo-umido delle zone tropicali, ed ecco spiegato il primato di due paesi, Filippine (19.500.000 tonnellate i dati dell’ultimo raccolto) e Indonesia, entrambi ricadenti nella fascia più calda e formati da migliaia di isole. Poiché la noce galleggia, e può resistere a lungo in mare conservando intatte le proprietà germinative, ne consegue una propagazione spontanea, in ogni continente, su tutta la fascia tropicale oceanica fra i 27 e i 32 gradi, con preferenza per i suoli sabbiosi e salini. Diffusa in 92 paesi (ma quelli davvero rilevanti non sono più di una ventina), la coltivazione occupa 11,8 milioni di ettari, con un raccolto annuo globale di 61,7 milioni di tonnellate (dati FAO 2009). Sui nostri mercati, la noce di Cocco arriva spogliata sia del duro esocarpo esterno, che del mesocarpo fibroso; quel che resta ne è solo l’endocarpo legnoso, praticamente un nocciolo paragonabile a quello della pesca o dell’albicocca, contenente una polpa biancastra e fragrante, di non facile estrazione. Per prelevarla, di solito ci si arma di martello e scalpello, atti a perforare la noce dove il diaframma è più sottile, e cioè in corrispondenza degli “occhi” germinativi, in modo da recuperare il prezioso liquido interno, altamente vitaminico, proteico e ricco di preziosi microelementi, quali il potassio. Poi, con l’ausilio di un coltello o dello stesso scalpello, si separa dalla scorza legnosa che aderisce fortemente la polpa commestibile, facile a seccarsi, e perciò subito immersa in un secchio d’acqua fredda dai venditori ambulanti di “Cocco bello, Cocco fresco”. Tale polpa, a noi così familiare, è in realtà semisconosciuta nei paesi tropicali di origine, ove si preferisce “bere”, anziché “mangiare” il Cocco, raccogliendo precocemente le noci non oltre il settimo mese, quando sono ancora allo stadio di “buko”, avvolte cioè da un esocarpo verde brillante che tende a scurire con la maturazione. Le dimensioni sono molto più grandi, fino a 40 cm di lunghezza per 30 di larghezza, corrispondenti a un chilo e mezzo-due di peso; l’interno può contenere da un terzo di litro a un litro di acqua di Cocco sierosa e zuccherina, sapida ed estremamente rinfrescante, da bere con una cannuccia o direttamente dal frutto, come fosse un otre naturale. La composizione di tale liquido, naturalmente sterile,  è talmente simile al plasma sanguigno, da poterlo impiegare per trattamenti endovenosi al posto della soluzione fisiologica, ove questa non sia disponibile. A questo stadio, l’endosperma, ovvero la noce di Cocco come la intendiamo noi, non è ancora formato, e presenta consistenza gelatinosa, ed è questo l’unico caso in cui il frutto è consumato fresco. I frutti più maturi, infatti, vengono sottoposti a trasformazione, sia per ricavarne sfarinati, latte di Cocco e altri prodotti per uso alimentare, sia per la produzione di copra, ovverosia polpa essiccata al sole due-tre giorni, contenente il 65-70% di olio di Cocco, di gran lunga il più importante prodotto estratto dalla noce, apprezzatissimo sia dall’industria alimentare che da quella cosmetica per la produzione di sapone. Oltre all’acqua di Cocco, prezioso reintegratore idrosalino naturale in forte ascesa (tanto da suscitare gli interessi dei colossi Pepsi e Coca Cola), dalla copra fresca si ricavano ancora per pressione latte e crema di cocco. Altro segmento importante è quello della farina e del Cocco grattugiato con igrometria del 2-5%, quest’ultimo assai richiesto come ingrediente di pasticceria. Quasi esclusivamente per il consumo locale, ma comunque di rilevante interesse, sono altri prodotti, come lo zucchero di palma, ricavato dall’infiorescenza recisa. Dalla fermentazione di esso, si ottiene il cosiddetto Vino di palma, o “Tuba”, che a sua volta alimenta una produzione di aceto. Tramite distillazione, se ne ottiene un alcol molto particolare. Come si vede, alla coltivazione del Cocco fa capo una gamma incredibilmente variegata di prodotti, ma non basta; a ragione la palma è detta ”albero della vita”, dal momento che nell’economia locale anche gli scarti non si buttano mai via, un po’ come per il nostro maiale. La fibra residua, ad esempio, serve a fabbricare zerbini, spazzole, pagliericci, stuoini e galleggianti per le imbarcazioni, mentre ritagli, frammenti e cascami diventano eccellente combustibile per grigliate. Dall’albero si ricava un legno di pregio, facile da trasformare in mobilio, oggetti decorativi e perfino strumenti musicali (maracas in particolare), mentre le fronde vengono utilizzate per confezionare stuoie e tetti impermeabili per le capanne. “Paradosso del Cocco” è l’espressione coniata dai nutrizionisti per spiegare i pregi di un olio che entra un po’ dovunque, non solo per uso alimentare, ma anche, come si è detto,  per la fabbricazione di detergenti (come il sapone marino, adatto a lavaggi con acqua di mare) e prodotti cosmetici che vanno dal monoï polinesiano a shampoo, creme da barba, dentifrici, prodotti farmaceutici come le supposte, perfino biocarburante. Composto prevalentemente di acidi grassi saturi, essenzialmente laurico (50%) e miristico (20%), l’olio di Cocco allo stato naturale è benefico, in quanto in grado di aumentare notevolmente la quantità di lipoproteine ad alta densità (il cosiddetto “colesterolo buono” legato alla sigla HDL). L’acido laurico, non a caso il principale acido grasso saturo del latte materno, è inoltre riconosciuto come potente antivirale, in grado perciò di rafforzare il sistema immunitario. Peccato che le proprietà benefiche dell’olio di Cocco, fonte di grassi a basso costo al pari di quello di Palma, vengano purtroppo snaturate dall’industria, che lo sottopone a idrogenazione per renderlo più stabile alle sollecitazioni termiche (punto di fumo, 230°), determinando innalzamento del colesterolo nocivo LDL e presenza di acidi grassi chimicamente alterati, i cosiddetti acidi grassi trans (secondo un recente studio responsabili, solo negli USA, di 30.000 morti l'anno per malattie coronariche e altri 20.000 per cancro). In Europa, che pure è il principale importatore, seguita da Usa e Cina, è quasi impossibile trovare un olio non idrogenato. La produzione mondiale, incentivata dalla forte domanda,  ha toccato nel 2013 il tetto degli 1,8 milioni di tonnellate, appannaggio di paesi come le Filippine, l’Indonesia e l’India, seguiti da Sri Lanka e Brasile. La leadership filippina è in realtà destinata da quest’anno a ridimensionarsi drasticamente, dopo le devastazioni prodotte nel novembre 2013 dal tifone Haiyan, costate 6.000 morti, 14 milioni di senza tetto e 33 milioni di palme da Cocco sradicate o abbattute. Per dare un’idea del peso della filiera Cocco nell’economia di un paese come le Filippine, basti dire che essa dà lavoro al 20% della popolazione e rappresenta il 5% del PIL. Un convegno FAO a sostegno dell’APCC, l’Asian and Pacific Coconut Community che riunisce i principali produttori ha evidenziato l’urgenza di un piano di sviluppo in grado di adeguarsi a una domanda che cresce a ritmi cinque volte superiori all’offerta. Che invece arranca, non solo a causa delle avversità climatiche, ma in gran parte per mancanza di iniziativa e di programmazione, oltre al ritardo per quanto riguarda i nuovi impianti. Un buon quinto delle piantagioni, infatti, è troppo vecchio, con esemplari fra i trenta e i cinquant’anni, che producono la metà, o addirittura un terzo di una palma giovane, fra i dieci e i vent’anni, che può dare fino a 150 noci all’anno. Occorrono comunque sei o sette anni prima che una palma messa a dimora raggiunga l’optimum produttivo. Sarà interessante vedere se nei prossimi anni i Paesi in via di sviluppo sapranno raccogliere la sfida di uno sforzo produttivo impostato su basi più moderne e razionali, occasione unica per valorizzare le loro risorse naturali, avanzando sulla via di un progresso sostenibile.

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