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C come Culatello di Zibello
Pubblicato il 13/06/2014
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E da morto crematemi e per favore spargete le mie ceneri nelle anse del Po per reincarnarmi per sempre tra le giunchiglie e i pioppi, fra le nebbie e la sabbia, dove il Culatello ha eletto il suo regno. (Gianni Brera, 1990)

Nel “Gioco di Cucagna” (1691) dell'incisore bolognese Giuseppe Maria Mitelli, compendio delle “principali robbe mangiative d’Italia”, ciascuna relativa a una città, compare una misteriosa "investitura" di Parma, molto simile per dimensioni e forma a un Culatello, salume in effetti “investito”, ovvero rivestito, insaccandolo e legandolo stretto, nella vescica di maiale o di vitello in modo da eliminare eventuali sacche d’aria che potrebbero, in fase di stagionatura, alterare il prodotto (Culatello “investito”, è scritto appunto in una mercuriale datata 1764). La prima citazione ufficiale ed esplicita del Culatello risale in realtà al 1735, contenuta nel "Calmiero della Carne Porcina salata" ad uso dei “lardaroli” parmensi, storica confraternita che trattava le carni conservate. E’interessante notare che, all’epoca, i "Culatelli senz'osso" erano quotati 19 soldi per libbra, poco più del prosciutto, venduto a 16, ma molto meno del salame, che era considerato di gran pregio e raggiungeva quotazioni anche doppie. Un altro precedente “Calmiero” piacentino del 1684 non azzarda però il termine Culatello, ma parla di "Persuti senz'osso", probabile eufemismo per intendere la stessa mercanzia dal nome imbarazzante, che all’epoca non tutti avevano l’ardire di pronunciare. In effetti il Culatello deve il suo nome proprio alla ben nota parte anatomica, descritta nel disciplinare come “la porzione muscolare degli arti posteriori del suino”. Perciò, fino a tempi recenti, l’impudico appellativo (e con esso il congenere culaccia) non trovava posto nel linguaggio ufficiale, benché fosse di uso assai comune tra lardaroli, che quella mercanzia trattavano, e i contadini, che non la consumavano direttamente, ma di solito la barattavano con uno o due lattonzoli da allevare l’anno successivo. In un documento ulteriore del 1805, tuttavia, il Culatello raggiunge la quotazione record di 48 soldi per libbra, quella dei salumi di maggior pregio, chissà se per merito dell’annessione napoleonica di Parma e Piacenza, divenute dominio francese. All’Ottocento risalgono anche le prime citazioni letterarie, dovute al poeta dialettale Giuseppe Callegari, che in una sua novella immagina il Culatello come cibo celestiale e paradisiaco, e a Gabriele D’annunzio, che da raffinato buongustaio qual era, se lo faceva regolarmente spedire dall’amico Renato Brozzi, scultore di Traversetolo, come risulta dalla seguente lettera datata 1891: ” Carissimo, ti farò sorridere. Io sono cupidissimo amatore del parmense Culatello (con una t o con due?) Esausto dalla malinconia operosa, dianzi sentivo i morsi della fame… Mentre gridavo, non senza ferocia: “Subito, subito tre fette di Culatello!”, la donna appariva con i tuoi pacchi preziosi. Il più grande aveva la forma conica della compatta cosa di fibra rossa e salata. Oh, fratello, l’allucinazione della fame m’ha strappato un grido di riconoscenza e di felicità: Brozzi! Un Culatello! E come ci hai pensato?” Per dirla con Guareschi, è un “piccolo mondo”, quello del Culatello, afoso d’estate e brumoso d’inverno, quando località come la verdiana Busseto, Polesine Parmense, Zibello, Soragna, Roccabianca, San Secondo, Sissa e Colorno restano isolate e come seminascoste dalle nebbie della Bassa e dalle cortine dei pioppeti, tra i lenti meandri del Po. Siamo a nord della via Emilia, in direzione opposta rispetto alle colline di Langhirano, rinfrescate dalle brezze di mare. Mentre in collina il clima ben si presta alla stagionatura dell’intera coscia suina con osso e cotenna, a Zibello e zone limitrofe, per dirla con D’Annunzio, “… l’aria del Po è spessa e umida, buona per le muffe che conservano buona la carne priva di grasso”.  Per questo motivo, la coscia normalmente destinata a prosciutto (era preferita quella dove il maiale si appoggiava, di norma la scrofa a destra e il verro a sinistra) qui viene letteralmente “smontata” dall’ossatura del femore con apposito, affilatissimo coltello, utilizzando della parte muscolare solo la noce, rifilata dal grasso in eccesso, sottoposta a salatura per una decina di giorni e finalmente insaccata nella vescica, che viene cucita aderente alla carne. Tradizionalmente, la lavorazione del maiale avviene nei mesi freddi da ottobre a febbraio, e per la stagionatura ci si avvale a tutt’oggi delle tipiche cantine interrate, esposte a nord, a temperatura costante sui 12°-14°, con elevata umidità relativa dell'80-85%, per un periodo di almeno dieci mesi a partire dalla salagione, con lenta asciugatura a 16°-18° per 30-60 giorni, a seconda delle condizioni climatiche. Unico ausilio tecnologico, una piccola finestra per il ricambio dell’aria, da chiudere se cambia il tempo. Il calo di peso a un anno di stagionatura è intorno al 40%.

Le brume della Bassa presiedono alla genesi del Re dei Salumi, e in qualche modo ne alimentano la leggenda: per produrre un buon Culatello, la nebbia è indispensabile quanto il sale, il pepe, l’aglio e il vino normalmente impiegati in lavorazione. Vero è che il disciplinare del Culatello di Zibello ammette anche l’utilizzo di nitriti e nitrati, sia pure con un tetto di 195 mg per chilo di carne contro i 300 mg dei salumi in genere, misura quasi indispensabile per chi produce in stabilimenti industriali climatizzati, asettici e piastrellati fino al soffitto: chi ha la fortuna delle muffe nobili delle vecchie cantine fa invece tranquillamente a meno di qualunque additivo o conservante. Il Consorzio di Tutela del Culatello di Zibello, nato l’ 8 gennaio 2009, raggruppa 21 produttori, 14 dei quali, a dimensione artigianale, identificabili dal marchio- coccarda rossa con la dicitura “antichi produttori”, hanno volontariamente aderito a norme ancora più restrittive, scrupolosamente rispettose della tradizionale lavorazione invernale, senza utilizzo alcuno di conservanti e additivi chimici, con asciugatura e stagionatura in ambienti naturali e cantine secolari. Alla fama del Culatello di Zibello, senza dubbio il salume italiano più pregiato e costoso, sono legati, non a caso, personaggi e produttori mitici, a partire dall’indimenticato Peppino Cantarelli (nella foto insieme a Bruno Pizzul), che a Samboseto (frazione di Busseto) gestiva fino agli anni Ottanta la migliore trattoria d’Italia, bis-stellata Michelin, meta di gourmet da tutto il mondo. Presidente del Consorzio è oggi Massimo Spigaroli di Polesine Parmense, che ha riportato in auge antiche razze locali come la Borghigiana. Stime ufficiali riportate su vari siti parlano di 50.000 pezzi l’anno di produzione globale, con ogni probabilità ampiamente sottostimati. Voce fuori dal coro (e dal Consorzio) è quella di Fausto Brozzi, che dichiara 250-260 pezzi l’anno. La differenza si vede, e si sente, già alla percussione col martello e alla foratura coll’osso di cavallo, e si conferma al taglio, che rivela un grasso quasi trasparente, intenerito dal calore della cantina naturale. Un prodotto per appassionati, fatto con passione. E non secondo logiche di mercato che, abbagliate dalla forte domanda globale, rischiano di inflazionare e svilire il Re dei Salumi, per di più inondando la Gdo di surrogati collaterali come il Fiocco, lo Strolghino (salame ricavato dalle rifilature) o di aberrazioni commerciali come le Pepite di Culatello, viste ultimamente al Cibus. Ed è ancora nulla di fronte al mare magnum planetario delle imitazioni, come ben dimostra la recente inchiesta Coldiretti sullo pseudoculatello a marchio “Salumeria Biellese”, molto “italian sounding”, ma 100% made in USA, pizzicato nell’esclusiva Salumeria Rosi di Amsterdam Avenue, a New York.

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