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C come cubaita
Pubblicato il 17/01/2014
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"La Cubaita ti obbliga a una sua particolare concezione del tempo, ha bisogno dei tempi lunghi del viaggio per mare o per treno, non si concilia con l’aereo, con la fretta. Ti invita alla meditazione ruminante. Rende più dolce e sopportabile l’introspezione, che non sempre è un esercizio piacevole".                                                                                           
(Andrea Camilleri, Elogio della Cubaita dell’Antico Torronificio Nisseno)

 

A seconda dei luoghi, anche Cubàita, Cubbaita, Cubarda, Copeta, Cupata. Varia il nome, ma non l’essenza di torrone arcaico, o meglio di croccante al miele, che incorpora mandorle, ma anche noci, pistacchi, sesamo, cacao, spezie e confettini colorati, seguendo una procedura laboriosa, ma di relativa semplicità. Immancabile sui banchetti dei “cupitari” o “copetai”ambulanti in ogni sagra o festa patronale del Mezzogiorno, si è irradiata in diverse località del centro-nord, da Mondovì a Siena. E’ invece ormai rara la consuetudine, un tempo molto diffusa, di prepararla in casa per Natale, amalgamando in pentole di rame miele, zucchero e frutta secca fino a caramellatura; il dorato composto, rovesciato sul marmo del tavolo di cucina, si tagliava a losanghe prima che freddasse completamente, facendo aderire a ciascuna porzione una foglia di alloro. Conservato all’asciutto in scatole di latta, si manteneva molto a lungo. La Cubaita è davvero buona quando “ci vuole il martello a romperla”, come asserisce Leonardo Sciascia, citato da Andrea Camilleri nel suo Elogio della Cubaita dell’Antico Torronificio Nisseno, tutto intessuto di viscerali e  appassionati amarcord:” La scoprii nel cassetto del comodino di mia nonna Elvira, che aveva la curiosa abitudine di mangiarsene un pezzetto a letto prima d'addormentarsi. "Che è, nonna?" "Cubaita di Cartanissetta". Fu un amore fulmineo. E infatti. "Ma tu, figlio mio, mangi pietre?" - mi domandò il dentista quando mi ci portarono la prima volta a dieci anni. "Nonsì, Cubaita". Ho viva ancora la sensazione di quegli anni d'infanzia quando m'infilavo la mano in tasca per prendere un pezzetto di Cubaita, la fodera resa tutta appiccicosa dal miele che si scioglieva e il pezzetto di Cubaita che, come una calamita, si portava appresso attaccati gli altri tesori d'allora, un francobollo, una fava caliata, un centesimo... Ora, vecchio, mi viene assai difficile mangiare la Cubaita. Mi consolo scartandola per offrirla agli amici. Ma la carta me la tengo in tasca. Ogni tanto la tiro fuori e l'odoro. E quell'odore, con l'aiuto della memoria, mi restituisce il sapore impareggiabile della Cubaita. In effetti gli ambulanti usavano avvolgere la Cubaita in carta oleata, da cui il detto popolare ‘scrusciu ri carta e Cubaita nenti’, letteralmente molta carta frusciante e poco dolce, in altri termini molta apparenza e poca sostanza. Quanto all’origine del nome, è lo stesso Camilleri a citare il Dizionario Devoto-Oli, che fa discendere Cubaita dall'arabo “qubbàt”, ovverosia "mandorlato", così come la versione coi semi di sesamo, tipica del Messinese e della Sicilia orientale, è detta “Giuggiulena” da “giulgiulan”, che in arabo vuol dire appunto sesamo. E’ peraltro innegabile l’assonanza col latino “cupedia”o “cuppedo”, letteralmente “ghiottoneria”, citata da fonti illustri, quali Tito Livio e Marco Terenzio Varrone. In relazione a quest’ultimo, reatino, non è certo un caso che in Sabina e nell’alto Lazio, in particolare ad Antrodoco e Montasola, sia ancor oggi presente una particolare versione di Copeta su foglie d’alloro, localmente detta “Nociata” per l’uso esclusivo delle noci. Col volgere dei secoli, non solo la fortuna della Copeta o Cubbaita non viene mai meno, ma si crea anzi un indissolubile legame con le festività natalizie. Negli archivi di Palermo, un atto notarile del 1287 cita un tale Federico “cubaydario”, erede del “cuppedinarius” di età romana, mentre l’archivio Colonna a Subiaco testimonia l’usanza di distribuire la Copeta natalizia ad ogni "fòco", e cioè nucleo familiare, di Pofi, Morolo, Santo Stefano, e altri paesi della Ciociaria e del basso Lazio. Una consuetudine del tutto simile si ritrova nella calabrese Polistena, la cui locale “Università” (il Comune), eroga fondi per tutto il Sei-Settecento “alli Cappuccini e PP. Paolini per la Copeta di Natale”. Festa, abbondanza, sacrale convivialità: questi i significati connessi ab antiquo alla Copeta. Lo conferma anche il seicentesco “Cunto de li cunti” di Giovan Battista Basile quando, filosofando sulle alterne fortune della vita, sentenzia: “E’ forza che ad uno tocca la fava della Copeta e l’autre se pigliano lo palicco.” La Copeta si diffonde in tutto il Regno di Napoli, e ancor oggi la ritroviamo in Puglia (Salento in particolare), Calabria e Abruzzo. Quello che potrebbe definirsi il “treat” più antico del mondo mediterraneo continua a deliziare grandi e piccini, ma anche ad appassionare gli studiosi per le sue implicazioni storiche e rituali davvero uniche, riconducibili da un lato alla romanità e dall’altro alla cultura islamica, così attenta alla dietetica umorale finalizzata a garantire, assieme a medicina e farmacologia, il benessere dell’individuo.

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