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C come caponata
Pubblicato il 04/10/2013
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Appena aperto il frigorifero, la vide. La Caponatina! Sciavuròsa, colorita, abbondante, riempiva un piatto funnùto, una porzione per almeno quattro pirsone. Erano mesi che la cammarera Adelina non gliela faceva trovare… Conzò il tavolinetto, portò fora il piatto, il vino, il pane e s’assittò”. (Andrea Camilleri, La gita a Tindari, Sellerio)

Regione che vai, piatto che trovi. È d’obbligo citare innanzitutto, accanto alla più conosciuta Caponata Siciliana, la Caponata Napoletana, consorella ma non gemella. In entrambi i casi si tratta di un piatto unico a base vegetariana, per quanto l’uso moderno tenda a relegarle fra gli antipasti, ridimensionando la quantità, da cui il frequente diminutivo Caponatina. Benché piatto di magro, la variopinta Caponata alla Siciliana scatena l’acquolina a prima vista, come insegna Camilleri, ed è vera apoteosi del gusto la morbida consistenza delle melanzane, la cui spugnosità si imbeve letteralmente, come fosse vera carne, di saporoso intingolo agrodolce in cui protagonista è il pomodoro. Spontaneo e naturale appare perciò il richiamo etimologico al cappone, pingue sovrano degli animali da cortile e campione di succulenza, morbidezza e grassezza su ogni tavola delle grandi occasioni. Caponata, in conclusione, in quanto mimesi culinaria (partendo da una materia prima delle più umili) di quel lusso sensoriale legato al non plus ultra della carne bianca, quella, appunto, del cappone, ma anche all’agrodolce, solitamente riservato a carni e pesci di pregio, ispirato da altissimi concetti filosofici di armonia ed equilibrio, secondo una linea di pensiero che da Apicio passa alla cucina baronale di età barocca, e poi ai “monzù” borbonici. Anche nella Persia sasanide e nell’Arabia preislamica, l’agrodolce non è che il riflesso culinario degli opposti principi zoroastriani di sole e luna, bianco e nero, caldo e freddo che bilanciano il dualismo tra bene e male, tra menzogna e verità del mondo. A fronte di tale ipotesi colta sull’etimologia del termine Caponata, impallidiscono tutte le altre, varie ma riconducibili a due filoni: quello della latinità, che presuppone una improbabile filiazione da cauponae (taverne romane), e quello ispanico-coloniale, che chiama in causa vari topoi gastronomici, dal “Capon de galera” delle caravelle alla speziatissima “Capirotada” della tradizione latinoamericana. Sia pure con innumerevoli varianti, la ricetta va assumendo i connotati attuali solo a fine Settecento-inizi Ottocento, quando si generalizza l’uso della salsa di pomodoro. Nella "Singolar Dottrina" di Domenico Romoli detto il Panunto (1560), si ritrova una ricetta arcaica della Caponata di melanzane, ortaggio introdotto in Sicilia dagli Arabi nel IX-X secolo; tra gli ingredienti vi sono sedano, capperi e olive, e l’agrodolce all’uso antico di aceto, zucchero di canna, uva passa e pinoli sostituisce il pomodoro, già noto, ma non ancora entrato nell’uso. Quanto alle melanzane, il loro impiego prevalente è cosa recente, anzi, recentissima. Vincenzo Mortillaro, marchese di Villarena, autore nel 1868 di un Dizionario Siciliano-Italiano, alla voce “Capunata” scrive la seguente spiegazione: “sorta di manicaretto ov’entra del pesce, petronciane o carciofi, ed altri condimenti, e si mangia per lo più freddo, o tra un piatto e l’altro per tornagusto, o dopo i piatti caldi.” Come si vede, le melanzane (petronciane) sono citate, ma il piatto appare piuttosto come un eterogeneo zibaldone, suscettibile di innumerevoli varianti. Solo nel dopoguerra si diffondono nei mercati la Tunisina “a culu tunnu”, la Seta dolce e soda e altre cultivar pregiate, assai più gradevoli dell’oblunga“mala insana” sospetta agli antichi, che bisognava spurgare dall’amaro per ore, cospargendola di sale sotto peso. Si arriva così alla Caponata di melanzane moderna, detta Siciliana per antonomasia. Dagli stessi presupposti trae origine la Caponata Napoletana, che però gli aristocratici Monzù scelgono di mantenere eterogenea (con scarola, alici, pesce a tocchetti, pomodori e basilico, cetrioli, uova sode a rondelle),  presentandola in bella vista su supporto di pane biscottato, la famosa “fresella”. Se Montalbano predilige l’abbinamento col vino, che potrebbe essere un Cerasuolo di Vittoria, a noi non è affatto dispiaciuta l’opzione della Special Grape Ale, prodotta con un terzo di mosto d’uva dal microbirrificio Paul Bricius nella medesima località ragusana. L’Estrema Unzione, Strong Ale della Iris di Palinuro, ha accompagnato egregiamente una Caponata Napoletana che più marinara non si può, con scarola, olive, pomodorini, tonnetto cilentano sott’olio e alici di menaica.  

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