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B come brigidini
Pubblicato il 08/03/2013
Fotografia

Li ricordano nelle loro opere scrittori come Fucini, Tozzi e Pratolini. Ne scrive Pellegrino Artusi: “è un dolce o meglio un trastullo speciale, alla toscana, che trovasi in tutte le fiere e feste di campagna e lo si vede cuocere in pubblico nelle forme di cialde”. A distanza di un secolo e mezzo, in tutte le sagre paesane e luna park itineranti i Brigidini sono ancora lì, immancabili, appesi a mazzi ai motorhome in tipici sacchetti trasparenti di forma stretta e allungata, pratici  per tuffarci la mano e sgranocchiarne il contenuto a manciate, strada facendo mentre si curiosa tra una bancarella e l’altra. Se ne avverte il profumo, e gli ambulanti ne sfornano in continuazione da apposito macchinario che attrae i curiosi. Simili a chips per forma e dimensioni (sei-sette centimetri di diametro), i Brigidini sono in effetti specialità di pasticceria, originaria del Pistoiese. Trattasi di cialde dolci sottili e piuttosto friabili color giallo-aranciato, arricciate ai bordi, basate su ingredienti di estrema semplicità, ma caratterizzate da inconfondibile e golosa fragranza di anice: i semi al naturale ancora si usano assieme a zucchero, farina, uova nelle preparazioni casalinghe, mentre l’industria usa mistrà o aroma naturale. I Brigidini, chiamati anche cialde o cicalini, sono tipici di Lamporecchio, resa celebre dal Boccaccio per la novella del furbo Masetto, “contadino con bella persona e viso assai piacevole” che fingendosi sordomuto impietosisce le monache di un convento, le quali poi, badessa compresa, prendono l’abitudine di andarsi a “trastullare col mutolo”. Il Boccaccio non lo precisa, ma è verosimile che quelle monache fossero proprio “Brigidine”, devote cioè a Santa Brigida. Oltre alle incombenze spirituali, le religiose si occupavano tradizionalmente della confezione di ostie per la comunione, a mezzo di caratteristici stampi in ferro con estremità a disco, da stringere a tenaglia, in modo da imprimere sull’ostia simboli religiosi a rilievo. Secondo una leggenda, una monaca sbadata e inesperta avrebbe un giorno “rovinato” l’impasto delle ostie, rovesciandovi incidentalmente zucchero e anice che dovevano servire per un altro dolce. Le monache pensarono allora, per non sprecare il composto, di foggiarlo a cialda alla stessa maniera delle ostie, riservandolo al pranzo domenicale. Secondo un’altra leggenda, sarebbe stata invece la stessa Santa Brigida a portare in dono questi appetitosi riccioli dorati. In realtà, fino all’ultimo dopoguerra, i Brigidini erano più rustici, cotti sovente, un po’ come i Necci di castagne, su piastre refrattarie o stampi in ferro arroventati sulla brace, per cui risultavano molto più grandi rispetto all’attuale; svolta decisiva verso il fingerfood e totale “laicizzazione” a partire dai nostri anni Ottanta, con la messa a punto di un pratico macchinario a rulli per preparare i Brigidini, brevettato da un ingegnoso artigiano di Pieve a Nievole. Con tale variante moderna, risulta più pratico utilizzare l’essenza di anice, invece dei semi. Oggi i Brigidini sono inseriti nell’elenco dei Pat, i prodotti agroalimentari tradizionali della Regione Toscana. Un indirizzo raccomandabile è la pasticceria Carli a piazza Berni, a Lamporecchio, ove si tramanda da generazioni un’antica ricetta di famiglia. Il consiglio è di abbinarli, più che al Vin Santo tradizionale (in caso, non troppo dolce), a un buon Moscadello di Montalcino come L’Aura di Camigliano, o anche a un raro cult biodinamico del Pisano come L’Oro di Caiarossa, da Petit Manseng vendemmiato tardivamente.

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