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Champagne, il primato è del terroir, non dell’uva
Pubblicato il 23/03/2012
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Ho già avuto modo di disquisire su queste pagine in merito alla sciocca abitudine di noi italiani di ricercare assurdi paragoni tra spumanti nostrani e Champagne, in una logica di autolesionistico e fuorviante campanilismo. Da un parte c’è una pletora di tipologie sparse in tutto un Paese, dall’altra c’è un vino specifico e identificativo di un’unica regione, che costituisce, tra l’altro, uno straordinario fenomeno commerciale, unico e irripetibile a livello planetario. Nonostante l’Italia stia crescendo considerevolmente nell’importazione e nel consumo di Champagne di qualità, con particolare riferimento al fenomeno dei “vigneron”, c’è ancora molto da fare rispetto alla sua cultura e conoscenza, e i luoghi comuni e le superficialità pervadono anche il pubblico più evoluto e il mondo dei degustatori. La maggior parte degli estimatori e degli abituali consumatori di Champagne si dividono tra “pinoneristi”, vale a dire coloro che amano il Pinot Nero perché ritenuto portatore di potenza e di complessità ancestrale, e “chardonnysti”, cioè coloro che prediligono la presunta maggiore raffinatezza e leggiadria dello Chardonnay. È un approccio assai superficiale che rappresenta l’esatto contrario di ciò che è lo Champagne, rispetto al quale un dualismo effettivamente esiste, non certo però rispetto ai vitigni utilizzati, ma in relazione alla differenza di approccio stilistico esistente tra le grandi maison, tese a costruire una continuità e linearità stilistica in cantina, e i vigneron, per i quali la supremazia del terroir è una sorta di Vangelo. Non esistono produttori che prediligono un vitigno rispetto a un altro: il tipo di uva è semplicemente considerato un mezzo, il migliore possibile, per esprimere il carattere del microcosmo ambientale di riferimento. È rarissimo sentir dire da un italico bevitore “preferisco i vini di Ambonnay”, “adoro i vini di Avize”, “amo gli Champagne di Ay”, e così via, ma è ricorrente l’affermazione “bevo solo Pinot Nero” oppure “preferisco la delicatezza dei blanc de blancs”. Lo Champagne proviene da un mosaico di microterroir unico al mondo, un vero e proprio patchwork viticolo nel quale ogni tassello conferisce all’uva e al vino caratteri estremamente differenti. Nella filosofia produttiva dei vigneron champenoise, il primato del terroir rispetto al vitigno è una pietra miliare: l’uva è veicolo e interprete dei caratteri dell’ambiente in cui vegeta, non ne è protagonista. Esistono Champagne a base Chardonnay che tra Avize e Oger sanno esprimere potenza e complessità che in quest’area il Pinot Noir non si sognerebbe di scalfire, ma al contrario, ne diverrebbe un pessimo traduttore, scomposto e monocorde. Dall’altra parte, la massiccia presenza del Pinot Noir ad Ambonnay o a Bouzy non è dovuta a una predilezione dei vigneron laggiù operanti per tale vitigno, ma è relativa alla presa di coscienza, maturata nei secoli, della migliore idoneità da parte di esso nel farsi portavoce della particolarissima mineralità gessosa ivi presente. Un viaggio di approfondimento in Champagne, reale o virtuale che sia, è indispensabile per capirne meglio l’essenza e la poliedricità. Forse, ci aiuta a capire meglio anche la genialità e le capacità infinite dei nostri migliori artisti della spumantizzazione, ai quali la natura quel terroir non lo ha regalato.

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