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Cultura del Vino pure questa?
Pubblicato il 06/05/2016
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“Il peggior vino contadino è migliore del miglior vino d’industria” affermava Luigi Veronelli qualche anno fa, sintetizzando in poche parole un percorso culturale durato millenni. Il vino sin dalla sua nascita, avvenuta in data imprecisata circa diecimila anni orsono nella culla della civiltà mediorientale, prese due strade parallele. Da un lato bevanda nobile consacrata agli dei e dall’altro pericolosa musa ispiratrice di rivolte popolari. L’abbassamento dei freni inibitori, insito nella natura stessa del vino, colloca, in breve tempo questo nettare prezioso al centro dei riti orgiastici che dai Sumeri ai Babilonesi, dal dio etrusco Fufluns a Dioniso in Grecia, hanno contribuito a costruire l’anima indipendente e anarchica della cultura del vino. Nel 186 a.C. il Senato della Repubblica Romana, su ispirazione di Catone il Censore, noto reazionario dell’epoca, proibì i Baccanali, riti considerati sovversivi e pericolosi per la repubblica. Lungi dal raggiungere risultati apprezzabili, il decreto rese semplicemente clandestini festeggiamenti orgiastici dedicati al dio Bacco, aumentando, così, il loro potenziale eversivo. Oltre quattro secoli dopo l’imperatore Diocleziano si trovò costretto a limitare i festeggiamenti del dio Saturno, i Saturnali appunto, nell’intervallo di tempo compreso tra il 23 e il 27 dicembre. Anche questi riti, infatti, acquisirono sempre più quelle caratteristiche orgiastiche che promuovevano il sovvertimento dell’ordine sociale. Gli schiavi erano, durante i festeggiamenti, uomini liberi. Veniva inoltre eletto, per estrazione a sorte, un capo (princeps) che, detenendo i pieni poteri, altro non era che una caricatura della classe nobile. Con la caduta dell’impero romano il vino, o meglio la vite, corse seri rischi di estinzione e fu salvata da monaci e contadini che ne fecero un alimento di base. Pur fornendo prelibatezze ai vertici della curia romana e delle corti europee, spesso monaci e sette millenariste, come i dolciniani resi famosi fa Dario Fo e Umberto Eco, con il loro voto di povertà, i semplici contadini e gli audaci sperimentatori nell’arte alchemica della distillazione incappavano nelle ire ecclesiastiche e più tardi della Santa Inquisizione per le loro tendenze eretiche. In epoca moderna il vino è stato oggetto di attenzione immediata da parte di intraprendenti mercanti. Da fine settecento, quando la rivoluzione francese confiscò tutti vigneti di proprietà nobiliare ed ecclesiastica, la produzione di vino è cresciuta progressivamente sia qualitativamente sia quantitativamente, soprattutto in Francia e in Italia. Passata la buriana rivoluzionaria, aristocrazia e alta borghesia corsero a riprendersi le grandi proprietà per poter dominare il fiorente mercato del vino. Ma per produrre vino avevano bisogno di contadini che si sporcassero le mani. Una nuova classe sociale si venne così a formare: “siete voi che zappate, che seminate, che falciate, che battete e portate il frumento nel granaio, siete voi che fate il vino, l'olio, il formaggio e mi domandate come fareste a campare senza signori? Domandate piuttosto come farebbero a campare i signori se non vi fossimo noi poveri imbecilli, lavoranti di campagna e di città, che pensiamo a nutrirli, e a vestirli e... somministriamo loro le nostre figlie, perché possano divertirsi!” (così scriveva Errico Malatesta nel 1883 in “Fra contadini: dialogo sull'anarchia”). La storia contemporanea ha visto ulteriormente svilupparsi questo dualismo. In Champagne, ad esempio, le grandi Maison spadroneggiano da secoli, nate quasi tutte come Negociant hanno tuttora in mano circa il 75% della produzione. Piccoli vignerons, però hanno smesso di vendere le uve e cominciato a vinificare in proprio conquistando importanti fette di mercato e standard qualitativi di eccellenza. La Borgogna, parcellizzata già dal XIX secolo, ha dato notevole spazio e cultura enologica ai piccoli produttori. In Italia, dove imperava la mezzadria, le produzioni contadine, in gran parte dedicate all’autoconsumo, si sono evolute nel dopoguerra raggiungendo, in zone caratterizzate da depressione economica come le Langhe e Montalcino, i vertici mondiali della qualità. Questo movimento basale ha obbligato i grandi produttori a fare delle scelte aziendali precise in merito alla qualità. Il mercato si è diviso in due segmenti distinti: Horeca da un lato e GDO dall’altro. Le grandi aziende che frequentano entrambi hanno dovuto creare prodotti di alta qualità per poter spingere quelli di base in vendita nei supermercati. La cultura del vino è cresciuta molto, anche il consumatore attento al prezzo vuole ormai un più alto standard qualitativo. La produzione industriale di vino è comunque tutt’altro che in crisi. Il nuovo mercato asiatico e la crisi economica alimentano la richiesta di prodotti a bassissimo costo, che aumentano il divario tra due mondi ormai completamente distinti: da un lato la cultura del vino, la ricerca della qualità, il piacere di percorrere diecimila anni di storia grazie ad un sorso di buon vino e quello di “camminare la vigna” per conoscere il vino che si beve; dall’altro il mero soddisfacimento di una domanda commerciale che trova la sua risposta in aziende che non posseggono neanche un ettaro di vigna.

Io frequento da molto tempo il primo mondo e qualche anno fa decisi addirittura di fare il corso da Sommelier, per migliorare il mio livello culturale in materia di vino. Con orgoglio conseguii il diploma che espongo nella mia “dimora”. Essendo passato qualche anno sopra di esso campeggiano logo e nome dell’Associazione Italiana Sommelier. Ora non vedo perché mi debba trovare, come altre decine di migliaia di associati o ex associati, a dovermi vergognare del mio titolo in conseguenza della scelta dei vertici dell’Associazione di svendere i cinquant’anni di cultura del vino, patrimonio di tutti i sommelier, alla Caviro e ai suoi 50 enologi necessari, in assenza di altre forme di cultura, a produrre una ridotta gamma di vini industriali venduti in tetrapak. Non riesco, quindi, a sopportare l’ipotesi, tutt’altro che remota, che qualcuno guardando il mio diploma possa chiedermi: “ahh l’Ais, ma chi quelli del Tavernello?”

 

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