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F come Frutta Martorana
Pubblicato il 01/04/2016
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Specialità siciliana per eccellenza, tradizionale della festa di Ognissanti, la Martorana è oramai reperibile in ogni periodo dell’anno, tanto da far bella mostra di sé in ogni pasticceria isolana di un certo livello. A base esclusiva di farina di mandorle e zucchero, presenta la particolarità di riprodurre nei minimi particolari coloratissima frutta di ogni tipo, solitamente confezionata in cestini o cassettine protette da un foglio cellofanato che permette di apprezzarne il contenuto, preservandone al tempo stesso morbidezza e profumo. Il prodotto artigianale, modellato e dipinto a mano pezzo per pezzo, si distingue per accuratezza dei dettagli (sfumature di colore, rugosità degli agrumi, piccioli e foglioline di complemento), mentre assai più rozza e approssimativa è la fattura in serie a basso costo destinata ai negozi di souvenir. Anche se prodotta un po’ in tutte le province siciliane, Palermo ne rivendica la primogenitura esclusiva, come attesta anche il nome: Martorana è in effetti il nome di uno storico complesso edilizio (chiesa, convento e monastero benedettino) che affaccia sulla centralissima Piazza Bellini, fondato nel 1194 dalla pia nobildonna Eloisa Martorana. La chiesa, preesistente in realtà da mezzo secolo col nome di Santa Maria dell’Ammiraglio, celebrativo di Giorgio d’Antiochia, Grande Ammiraglio del normanno re Ruggero II, venne trasferita dal rito greco-bizantino alle monache dell’Ordine di San Benedetto di Palermo. Curato e amministrato dalle religiose, appartenenti a nobili e influenti famiglie, non solo il complesso crebbe in rinomanza e in potenza, ma anche gli orti e i giardini del convento divennero in breve famosi come un piccolo Eden per la straordinaria abbondanza “di ogni sorta di verzure e alberi di ogni frutto”, tanto che il vescovo, o addirittura il sovrano, secondo altra variante del leggendario racconto, volle constatare coi suoi occhi, recandosi di persona al convento. Si era, però, nel cuore dell’inverno, periodo in cui orto e piante non fruttificavano. Fu così che le orgogliose e intraprendenti monache si misero alacremente al lavoro, appendendo ai rami spogli degli alberi gran copia di frutti d’ogni sorta, in tutto e per tutto simili al vero, imitati con pasta di mandorle, sapientemente lavorata con lo zucchero di canna che gli Arabi avevano, già all’epoca, acclimatato nell’isola. Agli stessi anni pare risalire, infatti, la ricetta del marzapane, dall’arabo“massaban”, in origine non una preparazione dolciaria (a Palermo nota in effetti come “pasta reale”), ma una sorta di scrigno portadocumenti a sezione rettangolare (da cui il detto “aprire i marzapani”, cioè svelare i segreti), poi adibito nell’ambiente nobiliare e curtense anche al trasporto e alla custodia di preziosi manicaretti come quelli confezionati dalle mani sapienti delle nobili dame della Martorana. La tradizione continuò per secoli, fino al 1575, anno in cui, per decreto vescovile, il monopolio della produzione dolciaria passò alla corporazione dei Confettari, lasciando le suore libere di dedicarsi in toto alla preghiera e al raccoglimento. Trecento anni più tardi, con la nascita del Regno d’Italia,  il nuovo governo sabaudo sopprime l’ordine monastico. Da allora, il complesso religioso entra in una fase di abbandono durata fino ai nostri giorni, mentre la chiesa, intitolata a San Nicolò dei Greci, torna a officiare il rito greco-bizantino per la comunità italo-albanese. Assai più vitale del monumentale complesso, sopravvive però la ricetta, da allora patrimonio dei pasticcieri palermitani.

Oggi la Martorana, riconosciuta come Stg, ovvero specialità tradizionale garantita, ufficialmente inserita dal Ministero per le risorse agricole nell’elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali siciliani, è famosa nel mondo come icona di sicilianità. Gli ingredienti della Frutta Martorana sono, in effetti,  i classici della pasticceria siciliana: farina di mandorle, zucchero, glucosio, farina di  grano duro e aromi vari, come le essenze di vaniglia e di mandorla amara. Si usa distinguere tra preparazione a caldo (diluendo lo zucchero semolato in acqua bollente) e a freddo (optando invece per lo zucchero a velo). Se il secondo procedimento è da ritenere più semplice e veloce, la preparazione a caldo è invece preferibile per conservare più a lungo il prodotto. Per la colorazione si impiegano colori alimentari consentiti, mentre per la rifinitura lucida si fa ricorso a gommalacca decerata o gomma arabica.

Le modalità di preparazione, tuttavia, pur richiedendo tempo e pazienza, sono relativamente semplici, e anche in casa ci si può dedicare con successo alla preparazione della Frutta Martorana. Chi possiede doti artistiche potrà operare a mano libera, altrimenti meglio fare ricorso a ingredienti semilavorati e agli appositi stampi per la formatura, da utilizzare rivestendoli di un film plastico, per facilitare il distacco dei pezzi. A Palermo ci si può recare da Nuccio, in Corso Calatafimi, per procurarsi una buona pasta di mandorle già pronta, oltre a stampi di ogni tipo, accessori e coloranti che garantiscono risultati impeccabili anche ai meno dotati di estro artistico. Meglio, in tal caso, procurarsi già pronti all’uso anche i necessari coadiuvanti di lavorazione, quali lo sciroppo di mais o di glucosio, fondamentale per mantenere morbida la preparazione, e la gomma arabica alimentare da stendere come rifinitura finale una volta asciugato il colore, in modo da conferire  ai piccoli frutti un bell’aspetto lucido e uniforme. Inutile dire che qui l’aspetto estetico, così fondamentale in tutta l’arte pasticcera siciliana, tocca il suo vertice più alto, coniugando il buono e il bello con la simbologia arcaica profonda dei frutti della terra, carichi di energia vitale. Visitando la Martorana di recente riaperta al pubblico dopo un restauro durato due anni, e in particolare ammirandone i pavimenti marmorei e il grandioso ciclo di mosaici bizantini, i più antichi di tutta la Sicilia, viene spontaneo pensare che a quei policromi bagliori, a quella rutilante fantasmagoria di sapore orientale devono per forza essersi ispirate le benedettine dell’antico convento che per prime realizzarono la ricetta.  

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