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Una piazza di meraviglie
Pubblicato il 18/09/2015
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Non ce ne vorranno i nostri cugini d’Oltralpe, ma oramai l’alta cucina non è più un loro appannaggio. Scalzati dalle nuove tendenze, in primo luogo quella nipponica, ma anche quella spagnola e nordeuropea, gli chefs francesi debbono da tempo inseguire i loro colleghi di altre parti del mondo. Anche gli Italiani; già, perché, liberi oramai dal fardello del timore reverenziale, i nostri grandi cuochi si pongono al vertice; da molto tempo, da quando un certo Gualtiero Marchesi rivoluzionò l’idea di alta cucina italica. Da quel 1986, quando Marchesi ricevette, primo in Italia, le tre stelle Michelin, di acqua ne è passata molta sotto i ponti. Non solo per il moltiplicarsi degli chef tristellati italiani, ma anche per la stessa concezione della haut cuisine, passata da appagamento edonistico per milionari a vera e propria forma culturale. Non mi faccio scrupoli ad affermare che, in un’epoca in cui le arti tradizionali languono, l’alta cucina è a tutti gli effetti una forma d’arte. Ed una delle più sublimi, perché appaga, oltre allo spirito, tutti i sensi: il gusto, l’olfatto, la vista in primo luogo, ma anche il tatto (pensate al sottile gioco delle consistenze e delle temperature) e l’udito (immaginate l’evocazione pavloviana data dal rumore di una crosta spezzata dal cucchiaino… e qui è sin troppo facile ricordare una delle più famose scene di quel grande capolavoro che è “Il favoloso mondo di Amelie”). E allora, se a certi livelli la cucina è arte, cosa di meglio che farsi ammaliare in un contesto già di per se superlativo, come quello del bellissimo centro medievale di Alba? Qui opera, infatti, uno dei grandi Maestri italiani, Enrico Crippa (nella foto di apertura), allievo proprio di quel Marchesi che spianò la strada a tanti giovani talenti. L’ambiente del ristorante, aperto con una grande famiglia del vino, quella dei Ceretto, è minimalista: si entra da una porta in un vicolo, suonando un citofono e salendo al primo piano tramite un’anonima scala (per chi abbia familiarità con il Giappone già qui ci si sente a casa). La sala è decorata con gusto ma senza alcun orpello inutile; pochi i coperti, numeroso, invece, il personale di sala. Ordiniamo il menu “Evasione e territorio”, ed immediatamente si aprono le danze; più in senso reale che figurato, visto che camerieri, maitre e sommelier si muovono per la sala di tavolo in tavolo come guidati da un invisibile filo, piroettando quasi e fornendo uno spettacolo visuale di raro fascino. Fascino che però non farà dimenticare il cibo, assolutamente straordinario. Impossibile descrivere i singoli piatti, le presentazioni, gli accostamenti di sapori e consistenze di assoluta genialità. Mi limiterò a citare l’abbondante uso di verdure e di insalata (Crippa ha un orto personale per il ristorante), elementi altrove usati solo per guarnizione, ma che qui divengono elemento fondamentale del piatto, omaggio alla semplicità di quella scuola nipponica cui il Maestro orgogliosamente appartiene. Assolutamente impeccabile il servizio dei vini, per i quali il solo rammarico è che si vorrebbero avere giorni per studiare la monumentale carta. Noi abbiamo optato per il Timorasso Montecitorio 2011 di Walter Massa, dalla ipnotica mineralità idrocarburica ed invidiabile freschezza, e per lo splendido Boca Le Piane 2006, di struggente, esemplare eleganza e verticalità. Ci si alza da tavola, dopo qualche ora, a malincuore, ma con la stessa emozione che si prova dopo aver assistito alla prima di un sublime concerto. Con la differenza, che questa volta sono tutti e cinque i nostri sensi a ringraziarci.

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