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C come cotechino
Pubblicato il 26/09/2014
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“Ah, cotichin! Null’altra a te somiglia
in fragranza e in sapor, vivanda eletta!”
(Tigrinto Bistonio, Elogio del Cotechino, 1791)

Modena, Bassa lombarda e Friuli, queste le tre culle storiche del Cotechino. Che, come dice il nome, comprende in massima parte cotiche o cotenne finemente macinate, spesso muso e grifo ricavati dalla testa, insaccando il tutto nella pelle delle zampe anteriori, rifilate e cucite, a differenza del cugino Zampone che della zampa mantiene forma e unghioni. Nato come salume povero, è divenuto pietanza beneaugurale, tradizionalmente consumata con amici e parenti durante la veglia di Capodanno, rigorosamente con contorno di lenticchie, approdando perfino alla cucina creativa, come dimostra il Cotechino con fonduta di formaggio, ormai un classico della cucina piemontese rivisitata da Davide Scabin. Secondo un’ipotesi storica tinta di leggenda, il Cotechino sarebbe nato a Mirandola, presso Modena, celebre per aver dato i natali al filosofo umanista Giovanni Pico, assediata all’alba del 1511 dalle truppe papali di Giulio II Della Rovere, a capo della Lega Santa contro la Francia. L’inverno era rigidissimo, e i mirandolesi  assediati erano ormai prossimi a capitolare per fame. Restavano ancora, però, alcuni maiali, e al momento di macellarli fu deciso di razionare il più possibile quell’ultima risorsa, conservando una parte delle carni in un involucro naturale ricavato dalla pelle delle zampe dei suini. Verosimilmente, una produzione regolare di Cotechino inizia solo a partire dalla seconda metà del Cinquecento, quando alcuni beccai (macellai) modenesi si riuniscono nella corporazione autonoma dei lardaroli e salsicciari, e difatti la specialità è già nota, nel secolo successivo, al bolognese Vincenzo Tanara, autore della “Economia del cittadino in villa”, che tratta a lungo “del porco e delle 110 maniere di farne vivande”. Nel 1745 il Cotechino è ufficialmente citato in un “calmiere” pubblico che ne fissa il prezzo, ma soltanto nel 1841 Vincenzo Agnoletti, cuoco romano al servizio del Granducato di Parma, codifica una volta per tutte la composizione dell’ impasto, che deve risultare “…per metà di cotenna e per metà di nervetti e carne magra”, non troppo dissimile, dunque, dal disciplinare odierno, che raccomanda il 60% di carni magre selezionate (polpa di spalla, gamba, collo e geretto), il 20% di cotenna tenera e il 20% di gola, guanciale e pancetta, accuratamente rifilati e mondati.

Anche le spezie impiegate non differiscono troppo dalla miscela suggerita da un lunario modenese del 1866, che raccomanda “aromi polverizzati, canella regina, macis, pepe garofanato, noce moscata, pepe forte franto”, fatte salve le varianti che ciascun artigiano mantiene gelosamente segrete. Nel 1910 Pellegrino Artusi inserisce la ricetta del “Cotechino Fasciato”nel suo celebre manuale culinario “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”,  precisando: “Non ve lo do per un piatto fine, ma come piatto di famiglia può benissimo andare, anzi potrete anche imbandirlo agli amici di confidenza”. Il Cotechino di Modena è oggi tutelato dalla IGP (Indicazione geografica protetta), che ne autorizza la produzione  anche in un’ampia fascia del Veneto, regione che, dal canto suo, fa distinzione fra sette diversi prodotti: Coeghin nostrano padovano, Coessin co lo sgrugno, Coessin del basso vicentino, Coessin co la lengua del basso vicentino, Coessin della Val Leogra, Coessin in onto del basso vicentino, Codeghin de Lavagno, connotati a volte dal nome della località, oppure, come si vede, da parti anatomiche come la lingua o il grifo che ne caratterizzano l’impasto. La limitrofa Lombardia annovera quattro tipologie, che prendono nome da altrettante province: pavese, della bergamasca,  mantovano e cremonese, più il «cotecotto», o Cotechino bianco della Valtellina, insaccato misto di carne bovina e suina in budello di manzo, con pepe e aglio. Particolarmente raffinato e molto ricercato nel periodo natalizio è il tradizionale Cotechino cremonese a «palla», insaccato nella vescica di vitello, caratterizzato da una macinatura più fine. «Il nostro cotechino - spiegano con orgoglio alla salumeria Saronni di corso Mazzini 38, Cremona - ha un sapore più gentile, il nome dice tutto sul gusto». Il tipo vaniglia è chiamato così per il gusto dolce e delicato, derivante dall’alta percentuale di carne magra, senza però aggiunta alcuna, nonostante il nome, di bacche di vaniglia o simili. Davvero aromatizzato alla vaniglia è invece il Cotechino mantovano, prodotto a Villastrada, in piena Bassa Mantovana, anch’esso di forma cilindrica con peso variabile fra i 600 e gli 800 grammi, mix di carni suine magre di monda (cioè sgrassate), guanciale, cotenne, spolpi di testa e grasso duro. Come per tutte le altre tipologie, l’apporto calorico è notevole, 390 kcal per 100 grammi di prodotto. Sono in molti, però, a pensare che, con buona pace della grassa Emilia (che pure annovera straordinarie tipologie affini, come la Mariola e la Salama da sugo), le radici più antiche del Cotechino siano da ricercare in Friuli, legate alla particolare tipologia nota come muset o museto, a base di rifilature magre del muso del suino (da cui, appunto, il nome), mescolate a lardo, cannella, pepe, noce moscata, coriandolo e chiodi di garofano, sottoposto a volte a leggera affumicatura naturale.

Brovàde e museto, ovvero Cotechino e rape, è autentico totem gastronomico della cucina regionale friulana. Corrado Barberis ricorda che a Venezia il “museto”faceva parte del menu dell’Ascensione, e si preparava in prevalenza col muso del maiale, all’opposto del “codeghìn” a base di semplici cotenne. Avvertendo, però, di non prendere troppo alla lettera tale distinzione, in quanto “v’è sempre stato chi mescolava cotiche al museto e chi mescolava parte del muso al codeghìn”. Sempre Barberis, nel suo volume “Salumi” edito dall’Insor riporta la ricetta di una “concia” della Contessa Perusini, che prescrive sale, salnitro, cannella, chiodi di garofano, pepe garofanato e semplice, noce moscata e un quarto di Picolit. Per tutte le tipologie fin qui descritte, in fase di cottura valgono sempre le medesime istruzioni per l’uso: forare preventivamente la pelle in più punti con uno stuzzicadenti (e non con in rebbi della forchetta, che potrebbero lacerare l’involucro), introducendo poi il salume avvolto stretto in un tovagliolo in una pentola colma di acqua fredda che lo ricopra, da portare a bollore abbassando infine la fiamma al minimo, lasciando lessare così per circa quattro ore. Si può anche presgrassare il Cotechino, lessandolo per un paio d’ore e poi cambiando l’acqua con altra già bollente. Purtroppo, a prevalere sono oggi le versioni industriali precotte dal gusto massificato, ma sono molti i produttori artigianali che meritano ricerca.

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