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C come carasau
Pubblicato il 09/05/2014
Fotografia

Il Carasau, o Carasadu, detto anche Pane 'e fresa, è il pane tipico di Nuoro e Sassari, a sfoglie circolari sottilissime di 20-40 centimetri di diametro. Popolarmente chiamato “carta da musica” per l’aspetto pergamenato o secondo altri per la caratteristica croccantezza, che ne rende rumorosa la masticazione, sembra derivi il  nome dallacarasatura”, e cioè la biscottatura istantanea alla quale ogni faccia (" sa cara") viene sottoposta per pochi istanti nella fase finale, al fine di abbatterne drasticamente il tasso di umidità. Gli ingredienti sono lievito, sale, acqua e farina, oggi esclusivamente di semola di grano duro, un tempo anche di farina d'orzo o cruschello, destinata ai meno abbienti. Costretti a passare lunghi periodi di tempo fuori casa, i pastori di un tempo, che seguivano le greggi nei loro spostamenti, disponevano in tal modo di un pane dal minimo ingombro, che non appesantiva la bisaccia ed era sempre pronto a usi versatili, sia al naturale (“a tracheddu”) che inzuppato di brodo caldo o di altri intingoli (“frattau”), sostituendo in tal modo la pasta. Mediante rapida aspersione con acqua, il Carasau “infustu” riacquista inoltre sufficiente morbidezza da poter accompagnare, avvolgendoli,  salumi, affettati e formaggi vari, avendo l’accortezza di bagnare la sfoglia unicamente dalla parte interna più ruvida, sempre mantenendola verticale per eliminare l’acqua in eccesso. Il rinvenimento in siti archeologici di resti di quello che potrebbe essere un arcaico pane laminare avvalorerebbe l’ipotesi di un’origine antichissima del Carasau, legato alla plurimillenaria civiltà nuragica. Alberto Ferrero Della Marmora, generale sabaudo con interessi di naturalista e cartografo, autore di un Voyage en Sardaigne e di numerosi altri scritti dedicati all’isola, lo descrive come pane tipico della Baronia di Posada da lui visitata, lodandone la praticità di impiego. La preparazione a livello domestico del Carasau, perpetuata da secoli sostanzialmente immutata, presenta aspetti di ritualità collettiva di notevole interesse demo-etno-antropologico, mobilitando più nuclei familiari che si prestano vicendevole aiuto, dietro compenso di una parte di prodotto. Alle prime luci dell’alba, mentre il forno alimentato a legno di quercia e olivastro viene preparato per l’accensione (“inchendya de su furru”), le donne di casa lavorano energicamente e a più riprese l’impasto dentro l’apposita conca di terracotta detta “impastera” e sul ripiano del tavolo (“sa mesitta”, pressandolo e rimodellandolo a lungo secondo una procedura antichissima, tramandata oralmente da generazioni. Mentre l’impasto ben lavorato lievita al caldo, ricoperto da un telo di lana nelle “canistreddas” o nel tradizionale “malune” di sughero, il forno è portato a temperatura stabile di 450-500°. Dall’impasto si prelevano piccole porzioni, lavorandole  coi mattarelli detti “canneddos” fino a dar loro forma circolare. Le “tundas” così ottenute vengono inserite una per una in appositi pannilana a pieghe, detti  “pannos de ispica” ove riposano ancora. Prelevate una per una e introdotte nel forno con la pala, per effetto del forte calore si rigonfiano a palla, fin quando l’espansione del vapore interno le distacca in due strati (“duos pizos”), definitivamente separati con la“fresadura” operata manualmente con un coltello a lama lunga. Ne risultano tanti dischi di diametro uguale, caratterizzati da una doppia faccia, una esterna liscia e una interna più irregolare e ruvida. A questo punto “sos pizos” vengono rimessi uno per uno dentro il forno per la biscottatura finale (“sa carasadura”), lasciandoli per un tempo più o meno lungo a seconda del grado di tostatura che si vuole ottenere. Man mano che le sfoglie escono dal forno, si impilano sotto peso in grossi cesti , in modo da comprimerle prima del confezionamento. La pressoché totale assenza di umidità e di sale permette a questo pane tradizionale di mantenersi inalterato per mesi.

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