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C come cicerchie
Pubblicato il 01/11/2013
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La Cicerchia (per i botanici Latyrus Sativus) è legume antico, già coltivato 10.000 anni fa, come attestano i ritrovamenti in siti archeologici della Mesopotamia e dei Balcani. Popolarmente nota anche come pisello d'erba, veccia bianca o veccia indiana, la sua coltivazione è in costante declino, ma risulta ancora piuttosto diffusa in diverse località del nostro centro-sud, ove si adatta bene a terreni aridi e impoveriti; nel resto del mondo, infatti, rientra tra le colture cosiddette di assicurazione, preziosa risorsa in terreni abbandonati, devastati da conflitti  o afflitti da siccità endemica, quali in Etiopia, Afghanistan, India e Asia Meridionale. Nelle regioni Umbria, Marche, Lazio, Molise e Puglia il prodotto locale, oggetto di riscoperta e rilancio in agriturismi e ristoranti tipici, ha ottenuto dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali il riconoscimento Pat (Prodotto  agroalimentare tradizionale). I semi, ad alto contenuto proteico come tutte le leguminose, risultano estremamente irregolari per forma e dimensione, simili comunque nell’ aspetto a un cece schiacciato, con contorni spigolosi e colorazioni varie, che vanno dal grigio chiaro al beige maculato. Necessitano di un lungo ammollo preventivo, meglio se in acqua tiepida, rinnovata due o tre volte, e di una cottura protratta almeno un paio d’ore, che si riducono della metà se si utilizza una pentola a pressione. Di norma, varietà a seme piccolo e di colore chiaro come la rinomata Cicerchia di Serra dei Conti (presidio Slow Food) o la Cicerchia umbra del Monte Cucco (Pat) risultano piuttosto tenere oltreché meno amare, ma le difformità da partita a partita possono essere notevoli. Da evitare, comunque, le pentole in terracotta, che, in quanto cattive conduttrici di calore, non garantiscono le alte temperature atte da un lato a intenerire la buccia (potenzialmente responsabile di meteorismo e irritazioni al colon), e dall’altro ad abbattere un principio tossico che, seppur presente, nei consumatori odierni non dovrebbe destare preoccupazione alcuna, manifestando i suoi effetti nocivi solo nel caso che ci si nutra di Cicerchie in maniera prevalente o addirittura esclusiva. Tale patologia di origine alimentare va sotto il nome di latirismo o latiriasi, ed è causata da una neurotossina, la beta-N-ossalilammino-L-alanina, di fatto un amminoacido non proteico che, interferendo con i recettori neuronici per l’acido glutammico, provoca degenerazione delle vie corticospinali, con progressiva comparsa di disturbi funzionali che, se trascurati, portavano le nostre popolazioni rurali tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento a paralisi spastica irreversibile degli arti inferiori. Tale patologia, da noi oggi virtualmente scomparsa, ma ancora osservabile in aree terzomondiste travagliate da penuria alimentare ed eventi bellici, è la stessa a cui fa riferimento una famosa acquatinta di Goya della serie Los Desastres de la Guerra, eseguita tra il 1810 e il 1820, intitolata “Gracias a la almorta”. In essa è rappresentata una donna sofferente che tenta invano, tra la costernazione degli astanti, di risollevarsi da terra, resa evidentemente inferma dalla dieta “di guerra” forzata a base di Cicerchie (in spagnolo, almortas o alverjones). Recenti studi hanno fissato al 30% dell’apporto calorico totale la soglia di guardia da non oltrepassare. Nessun problema, dunque, né per i consumatori sporadici, né per i nostalgici dei sapori contadini che con le Cicerchie preparano zuppe e minestre, o le servono come contorno di salsicce e arrosti rustici. Rischi zero, soprattutto, per quanti osservano una dieta ricca e varia. Via libera, dunque, alle Cicerchie, ricche di sapore d’antan, ma anche di fibre solubili, polifenoli, proteine, sali minerali e vitamine del gruppo B, fermo restando il prudenziale consiglio di consumarne saltuariamente, possibilmente accompagnate da cereali e verdure. Dalle Cicerchie essiccate e macinate si ottiene una farina chiamata “patacò”, utile per polente, frittelle e focacce, celebrata in apposita sagra invernale a Licodia Eubea, nel Catanese. Tipico il condimento con broccoletti e salsiccia, agliato e piccante quanto basta: è piena armonia con l’Etna Rosso prodotto da Elena Graci, a base Nerello Mascalese.

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