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C come civet
Pubblicato il 20/09/2013
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Il Civet (a volte italianizzato in Sivé) è antica ricetta francese di preparazione della selvaggina, lepre in particolare, da noi tradizionale soprattutto in Piemonte, dalle Langhe al Canavese. Anzi, secondo autorevole ipotesi del principe dei gastronomi Curnonsky, culla della ricetta originaria sarebbe proprio la Savoia. Col rarefarsi degli esemplari cacciati, la medesima ricetta si applica di frequente anche al coniglio di allevamento, mentre solo di rado ci si imbatte in un Civet di selvaggina da pelo di grossa taglia, come cervo, camoscio o cinghiale. Curioso notare che il Fenek (coniglio) in Civet è piatto nazionale maltese, e che alla Réunion e all’isola Maurizio è assai apprezzato il Civet di Tenrec o Tangue, piccoli mammiferi simili a toporagni. Il nome deriva verosimilmente dall’occitano “cive”, a sua volta imparentato col latino “cepa”, riferito a bulbacee come aglio e cipolla, ingredienti fondamentali della canonica marinatura, che ha lo scopo di rendere le carni più tenere e digeribili. Ricetta di antichissima origine, solo con l’Ottocento trova definitiva codificazione, diventando un classico fondamentale dell’alta cucina d’Oltralpe. I ricettari nostrani tendono ad assimilarlo al Salmì, dal quale però si contraddistingue per l’utilizzo del sangue dell’animale, tanto più difficile da recuperare se l’esemplare non è di cattura, ma è comperato dal macellaio. I Francesi distinguono nettamente fra Civet (che incorpora il sangue dell’animale, eventualmente integrato da sangue di maiale) e Gibelotte, preparazione analoga, ma senza sangue. In tal caso, c’è chi suggerisce di scurire e addensare con cioccolato fondente, come nel Dolceforte toscano.  Su lepre e coniglio ha pesato a lungo l’anatema della Chiesa: San Zaccaria Papa li definiva “ lubrichi, affetti da ignobili vizi trasmissibili all’uomo”. Apparivano impuri o addirittura diabolici alcuni comportamenti naturali, come quello di reingerire le feci molli e i prolungati accoppiamenti. Tuttavia, il Civet doveva essere già popolare nel Cinquecento se un celebre predicatore svizzero, Jean Geiler de Kaysersberg, intitolato Le Civet de Lièvre (Der Has im Pfeffer, del 1502 ) una sua raccolta di sermoni, paragonando la laboriosa preparazione della squisita pietanza al faticoso percorso che ogni buon cristiano deve compiere per meritarsi le gioie del Paradiso.  Dobbiamo però immaginare alquanto diversa la ricetta, caratterizzata da abbondanza di agresto e spezie secondo il gusto dell’epoca. A dare il programmatico colore scuro, non era il sangue, soggetto a proibizioni alimentari, ma l’aggiunta di pane fortemente tostato. Via via, nel corso dei secoli, il bouquet garni ha sostituito le spezie, vino e brodo l’agresto, il pane bruciato si è trasformato in crostini fritti. L’uso odierno tende anche a contenere tempi e modi di marinatura: non più due o tre giorni al caldo, ma 24 ore (o poco più, in inverno) in luogo fresco, scegliendo un vino rosso corposo di buona qualità (tradizionale il Dolcetto) e aromi. Parte della marinata va poi filtrata e utilizzata il giorno successivo, aggiungendola poco alla volta alla carne sottoposta a rosolatura in casseruola, con lardo, aglio (ma anche cipollina e scalogno), spezie e aromi come chiodo di garofano, alloro, timo e rosmarino. Solo a fine cottura si aggiunge il sangue, mantenuto fluido dall’aggiunta di aceto e sale, operando con delicatezza per amalgamarlo all’intingolo. Salvo che nella fase iniziale di rosolatura degli aromi, la fiamma va sempre tenuta molto bassa, ma se la carne tendesse a seccarsi troppo si può sempre aggiungere un poco di brodo, tenendo presente l’optional di qualche porcino secco rinvenuto nel medesimo e poi sbriciolato e incorporato al resto, in modo da enfatizzare i profumi di macchia e di bosco. Dal Delfinato alla Bretagna, è di rigore una parsimoniosa aggiunta di crema di latte, nel Midi è piuttosto il timo a dare un tocco particolare. Per i Francesi tutti, difficile immaginare una pietanza più concretamente emblematica del buon gusto borghese d’antan. L’abbinamento più tradizionale è con vini rossi corposi e di sostanza, quali Châteauneuf-du-pape, Pommard, Hermitage, Chinon o Minervois, salvo optare per un nostrano Dolcetto Superiore di Dogliani o per un buon millesimo di Aglianico del Vulture.

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