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C come carbonara
Pubblicato il 06/09/2013
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La pasta più popolare tra gli italiani deve la sua fortuna alla semplicità e alla facile reperibilità degli ingredienti: scavando nella dispensa più sguarnita, un uovo, un resto di formaggio e qualche dadino di  pancetta si rimediano sempre, e se proprio non c’è uno spaghetto in casa si può sempre bussare al vicino. Dopodiché  inizia l’arduo cimento: scolata (ma non troppo) al dente, la pasta va tramenata velocemente fuori fuoco, fino a rivestirla uniformemente del cremoso intingolo, che deve rapprendersi appena al residuo calore dolce, evitando nella maniera più assoluta il grossolano effetto “frittata”.

Ma se insidiosa è la prassi, addirittura spinoso è il dibattito sulla controversa origine della Carbonara, annosa e vexata quaestio che divide da sempre gli appassionati. Mentre per la consorella Amatriciana, infatti, non sussiste alcun dubbio sul primato di Amatrice, che perfino sul cartello stradale si autoproclama“Città degli Spaghetti all’Amatriciana”, le assai più generiche radici centro-italiche della Carbonara scatenano accese diatribe e fanno versare fiumi d’inchiostro. A cominciare dai filologi di stretta osservanza, che ne difendono a spada tratta le origini napoletane e aristocratiche, in base a una ricetta ottocentesca contenuta ne “La cucina teorico-pratica”, di Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, che però cita, a onor del vero, sì le uova battute, ma non il guanciale. Sul fronte opposto l’Emilia-Romagna, altra food valley per eccellenza, rivendica anch’essa la primogenitura di una “sua” Carbonara postbellica e democratica, codificata nientemeno che dallo chef Renato Gualandi, bolognese di nascita (ma misanese, e dunque romagnolo per adozione), secondo Carnacina tra i migliori del dopoguerra. Quasi un oscar alla carriera, nel 2008 l’ultranovantenne Gualandi viene ufficialmente riconosciuto dal sindaco di Riccione inventore della Carbonara, rievocando lo storico banchetto del settembre 1944 in onore degli angloamericani, allestito con le uniche risorse disponibili a guerra appena finita, e cioè bacon, crema di latte, formaggio fuso e polvere di rosso d’uovo delle razioni militari; amalgamando tali ingredienti con un bel pizzico di pepe e guarnendo con crostini al prezzemolo di supporto, Gualandi sarebbe riuscito a sfamare l’intero stato maggiore alleato. Inevitabile la levata di scudi dei gourmet capitolini: ammesso e non concesso che la Carbonara sia figlia di un pacco Unrra, non c’è dubbio che solo il magico tocco di un oste di Roma città aperta poteva trasformarla in condimento decente, da farne addirittura“scarpetta”.

Per i “romani de Roma”, infatti, la Carbonara è un monumento più intoccabile del Colosseo, seppur non suffragata da alcuna testimonianza storica. E neppure sussistono legami, se non di fantasia, tra la Carbonara e i patrioti mazziniani avversi al Papa Re, come adombrato nel  testamento cinematografico di Luigi Magni intitolato appunto “La Carbonara”, del 1999. Al contrario, la vera origine del piatto è piuttosto da ricercarsi in ambito extraurbano e nazional-popolare, legata com’è a un antico mestiere scomparso con l’ultimo dopoguerra: quello dei carbonai, ovverosia boscaioli specializzati nella preparazione di carbone vegetale, alternativo al carbon fossile che, specialmente nell’Italia peninsulare, è sempre stato scarso. Ancora oggi nei parchi appenninici tra Umbria, Abruzzo, Toscana e Lazio molti sentieri, detti appunto dei carbonai, conducono agli spiazzi dove attorno a un palo centrale si accatastava con luna calante e secondo precise regole la legna, poi ricoperta di fogliame e terra, in modo da assicurare una combustione lenta e parziale, che poteva durare anche una settimana. Quando il fumo si faceva turchino e trasparente, il carbone era pronto, ma bisognava ancora attendere due-tre giorni prima di insaccarlo nella juta per farne mercato. Gli scaltri osti si sinceravano della qualità prendendone una manciata: non doveva sbriciolarsi, ma “cantare” bene alla percussione e risultare uniforme, asciutto e leggero. Da trenta-quaranta quintali di legna si ricavavano in media 6-8 quintali di carbonella, per secoli risorsa di primaria importanza per cucinare e scaldarsi, nell’economia montana spesso barattata con gli ingredienti fondamentali: il pecorino del pastore, il guanciale del porcaro (abbondantemente conciato con quel conservante naturale che è il pepe), le uova del contadino. La brace era sempre pronta, e in luogo del pane, prima o poi raffermo e a rischio muffa, i carbonai portavano con sé pasta di lungo formato (massima resa in minimo ingombro) e una pentolaccia da riempire con acqua di sorgente. Sofia Loren ricorda che nel 1960 un piatto così preparato le venne recato in omaggio dai boscaioli di Fondi, durante le riprese della Ciociara. La legna si preparava in estate-autunno per poi rivenderla d’inverno, quando la richiesta era più alta. Ma nella popolosa Roma, osti e locandieri ne avevano bisogno tutto l’anno, e a loro i carbonai trasmisero a voce la ricetta. Di conseguenza, una regola aurea non c’è, ma meno ingredienti si impiegano, e più la Carbonara sarà verace. Niente olio, cipolla, parmigiano o panna (tipici semmai della variante raffinata su fettuccine chiamata “Papalina”), ma uova intere (meglio dei soli tuorli), pecorino non troppo stagionato e guanciale a fettine, tranquillamente intercambiabile con una buona pancetta affumicata, il miglior espediente per recuperare il naturale fumé dei carbonai.

E per chi ancora dubitasse dell’origine plurima e popolare della Carbonara (plebea a tal punto da non trovar posto nei ricettari di cucina se non in tempi recenti), sarà utile il raffronto con la Polenta Carbonera trentina della Valle del Chiese, che esige rustico condimento di salamella e ritagli di Spressa di Pinzolo e delle Giudicarie. Si prepara nel tradizionale paiolo col Mais Marano di Storo, essiccato naturalmente sui ballatoi in legno dei masi; cucinarla su un fornello a gas non sarebbe la stessa cosa, perciò si usa il carbone vegetale da legna preventivamente stagionata, insostituibile per conferire sapore genuino a grigliate e pietanze tipiche, preparato come un tempo nel tradizionale spiazzo tra i boschi chiamato“poiàt”. 

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